Dallo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia una chiave di lettura per decifrare il fatto di sangue capitato ad Agno una dozzina di giorni fa
Il fatto di sangue capitato domenica 7 agosto, tra la fermata delle Flp e la via Aeroporto ad Agno, ha posto e pone alcuni interrogativi nella società. In attesa che l’inchiesta penale, coordinata dalla procuratrice pubblica Margherita Lanzillo, faccia il suo corso, la domanda fondamentale che tutti si sono fatti e che resta senza risposta, è cosa ha spinto un padre a sparare contro il proprio figlio. Con l’intento di fornire alcuni elementi di comprensione, per aiutarci a decifrare l’episodio, abbiamo chiesto un parere allo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia, presidente Asi-Adoc. Premesso che il papà, di fronte agli inquirenti, ha dichiarato che gli spari sarebbero partiti accidentalmente e che lui aveva portato con sé il fucile per difendersi da un ambiente da lui percepito come potenzialmente ostile, abbiamo sollecitato l’esperto domandandogli una chiave di lettura o un’interpretazione dell’evento di cronaca nera, successo alla luce del sole, che ha scosso non solo la comunità di Rovio.
Cominciamo dalla domanda che tutti si sono posti: cosa potrebbe aver spinto il padre a sparare due colpi di arma da fuoco contro il proprio figlio? «Nessuno può sapere cosa sia successo nella mente dell’uomo, però, da quello che emerge, sembrerebbe la storia di una famiglia disagiata con grossi problemi anche a livello di comunicazione. Una famiglia le cui relazioni appaiono improntate sulla fisicità piuttosto che sulla dimensione del rispetto delle emozioni», risponde Mattia. Come si può definire questo ambiente familiare? «È come se stessimo parlando di una famiglia con analfabetismo emotivo, nella quale si reagisce soprattutto attraverso le pulsioni e dove la forza, il contrasto e l’aggressività hanno preso il sopravvento», annota lo psichiatra. Elementi di aggressione verbale e fisica avvenuti nell’ambito privato e pubblico, erano noti anche nel paese.
Questo scenario quanto può aver influito nella messa in atto del fatto di sangue? «In questa situazione potrebbe essersi creato un accumulo di frustrazioni, in una dimensione ove covava una rabbia importante». Qual è il quadro (o l’idea) che si è fatto leggendo gli articoli pubblicati la settimana scorsa da ‘laRegione’, in particolare quando abbiamo dato voce ai conoscenti del figlio? «Mi pare che siamo di fronte a una situazione di profonda incapacità a leggere le emozioni dell’altro, in una dimensione di aggressività già manifestata, con tanta rabbia accumulata. Questo contesto può portare a quello che James Hillmann (il grande studioso della mente, psicologo junghiano, filosofo e saggista) ha definito come vendetta immediata o vendetta procrastinata. Quasi fosse necessario un ultimo evento, per far scattare o attivare qualcosa dentro, magari non in maniera conscia». Quale potrebbe essere questo ultimo episodio scatenante? «Potrebbe essere quello dei soldi della nonna che il figlio avrebbe sottratto. Qualcosa che non doveva assolutamente succedere».
Lo psichiatra richiama il mito all’interno del creazionismo legato alla cacciata dal paradiso terrestre, «quando il Dio creatore ha espulso Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden (o Gan Eden), perché hanno preso la mela. Avrebbero potuto fare tutto, ma non prendersi quel frutto proibito». Allo stesso modo, a suscitare la reazione del padre, è bastato il sospetto che il figlio avesse messo le mani sui soldi della nonna. «Il giovane avrebbe così oltrepassato il limite, nel contesto di una relazione basata piuttosto sul conflitto tra chi è dominante e chi è sottomesso. Si potrebbe parlare di accumulo di rabbia e di frustrazione, che potrebbe aver portato il padre a questo tipo di perdita del contatto con il senso della realtà», continua Mattia. Da quanto emerso finora, prima di uscire di casa e di andare a cercare il figlio, il papà ha preso con sé il fucile. «Al di là di ciò che il padre ha detto di fronte agli inquirenti, dal punto di vista psicologico, non sarebbe partito con l’idea di uccidere il figlio. Però, l’arma l’ha presa. Se non l’avesse avuta con sé, non avrebbe potuto sparare. L’unico modo per non sparare è non avere un’arma».
Lo psichiatra fa un riferimento alla mitologia greca, parlando delle Erinni (le Furie, o meglio, personificazioni femminili della vendetta con la missione di vendicare i delitti, soprattutto quelli compiuti contro la propria famiglia, ndr.). Nella discussione con il figlio, quando lo ha ritrovato ad Agno, «il padre potrebbe aver perso le staffe, venendo così sopraffatto dalle Erinni (o Furie), e quindi il contatto con la realtà. Con un’arma sotto mano, può succedere anche di usarla, proprio perché il padre si è trovato in una situazione di scissione con il principio di realtà, come se non ci fosse più la parte del dominio della volontà, che ci permette di inibire le pulsioni». Quanto la situazione familiare di disagio e di dipendenza dalla droga, potrebbe aver agevolato l’uso dell’arma? «Siamo in effetti in un contesto che può essere un attivatore di atti di perdita della capacità di gestire la propria volontà. Chiaramente, anche il contesto internazionale di guerra in corso e il recente fatto di sangue di Stabio, potrebbero aver contribuito. Questi sono tutti elementi che fragilizzano in una mente già fragile. Una mente che non lavora più con la dimensione cognitiva, che inibisce le pulsioni, ma piuttosto il contrario, ossia elimina i freni e favorisce l’uso della forza nella relazione e nella comunicazione».
Sembrerebbe che la situazione di disagio in cui ha vissuto la famiglia fosse nota, non solo in paese, ma anche alle autorità. Quanto può o potrebbe pesare la presunta mancanza di presa a carico da parte dei servizi preposti? Con il senno di poi, si può parlare di lacune, per l’assenza di un qualsiasi intervento volto almeno a evitare danni maggiori? «È giusto interrogarsi, a livello di società, quando capitano questi fatti, su quali potrebbero essere stati i possibili atti mancati – risponde Mattia –. D’altra parte, dobbiamo anche partire dal presupposto che la società non può controllare ogni cosa. Viviamo in un contesto di libero arbitrio, anche se ci sono casi in cui si convive con una situazione potenzialmente disgregata. Ci sono alcune peculiarità della società imprescindibili quali l’autonomia e la libertà individuale. Quindi, è corretto domandarsi su cosa e come, la società o i servizi preposti, quando succedono casi come questi, avrebbe potuto intervenire, nell’area della prevenzione. Senza però il consenso della persona interessata, non si può imporre una presa a carico, a meno che non via sia un reale pericolo per sé stessi o per gli altri. Rimane prioritario aprire una riflessione più ampia fra i vari attori della società, partendo da queste tragiche situazioni per migliorare e rinforzare il sistema di prevenzione e di cura, al fine di ridurre al minimo il rischio di atti di aggressione contro la persona».