Il presidente di GastroLugano rende attenta la categoria anche della presenza di false attestazioni o di diplomi di scuole inesistenti
Senza le fondamenta un edificio crolla, così come senza un bravo lavapiatti un ristorante farà fatica a sbarcare il lunario. Soprattutto di questi tempi, compromessi dalla crisi economica e da una lunga e sfiancante emergenza sanitaria. L’allarme è così arrivato anche alle nostre latitudini, non più solo in Italia dove esercizi pubblici e gerenti avevano resi attenti, già qualche mese fa, dalla mancanza di personale. «Sono professioni molte volte sottovalutate – ci dice Michele Unternährer, presidente di GastroLugano –, senza di loro però in cucina non va avanti niente. Ed è una carenza che riguarda i vari profili. Proprio per questo anche GastroSuisse nella sua ultima assemblea ha discusso molto su questo punto e all’incirca una settimana fa sono stati inviati a tutti gli associati cinque punti (cfr. infografia) al fine di risolvere questo problema riconosciuto anche dalla nostra categoria».
Una carenza che sarebbe stata avvertita soprattutto dopo le difficoltà vissute per il Covid, «perché tante persone che hanno cominciato a fare questo mestiere, come il cuoco o il cameriere, magari a quindici anni, come è sempre successo, se prima, per calo di motivazione o mancanza di voglia, non riuscivano a guardarsi in giro così da cambiare posto di lavoro, con la pandemia hanno diversamente avuto tutto il tempo di cercare altro, di rendersi conto che hanno una famiglia e che stare a casa la sera o la domenica non è così male... Perciò hanno trovato altri impieghi che hanno orari più normali, tipo il magazziniere, il commesso. Per l’amor del cielo non siamo l’unica categoria che lavora la sera e i festivi, pensiamo ai mezzi pubblici, agli ospedali, e a tanti altri, però le rinunce non sono poche. Del resto possiamo godere di svariate formazioni presenti nella stessa categoria di ristoratori e, se ben formati, alla fine possiamo andare a fare un po’ di tutto. Pensiamo a un buon cameriere che riesce a vendere la buona bottiglia di vino, probabilmente è anche capace di venderti un altro prodotto».
Difficile proporre delle statistiche: «Posso senz’altro confermare che ci chiamano spesso, ci chiedono se conosciamo o abbiamo personale disponibile, ma non tutti ci portano le loro lamentele perciò è difficile presentare dei numeri – risponde ai nostri interrogativi il presidente –. Certo è che oltre alla mancanza di camerieri e lavapiatti, registriamo anche critiche sulla vera preparazione. Il problema maggiore sta nel fatto che girava, e suppongo giri ancora, gente che presenta attestati fasulli o addirittura di scuole inesistenti! Questo non è solo nella ristorazione, ma il nostro settore dovrebbe fare un po’ più di attenzione. Se qualcuno esce da una scuola alberghiera e non sa qual è la giusta posata c’è qualcosa che non va. Anche per questo nel contratto collettivo di lavoro abbiamo un periodo di prova che va da uno a tre mesi proprio per dare la possibilità di accorgersi della preparazione o delle conoscenze di un neo assunto, così da poterlo lasciare a casa o rivedere il contratto. Non è che dobbiamo o possiamo sempre accettare tutto!». Soluzione? «Non ho la bacchetta magica. In futuro si dovrà puntare, soprattutto, sulla formazione, che non si può fare da un giorno all’altro, ci vogliono mesi se non anni. Purtroppo, poi, manca in tanti la passione. È chiaro che è un lavoro che richiede dei sacrifici, ma può dare tante belle soddisfazioni. Non dimentichiamo che sono passati per tutti gli impieghi dal classico orario 8-17».
Ti-Press
Matteo Galbani e chef Marco Badalucci
Desk, sala, cucina. C’è tutto un mondo oltrepassata la soglia di un esercizio pubblico. Lo sanno bene Matteo Galbani e Marco Badalucci, soci dell’omonimo ristorante lungo viale Cassarate a Lugano. Aperti dal marzo 2019, vivono oggi le difficoltà di una professione che stenta a ripartire con slancio. «La mancanza di personale – evidenzia Galbani – è un’emergenza che sentiamo molto soprattutto dopo l’avvento del Covid. O meglio lo si trova, ma tutti vogliono essere subito dei manager. Escono da scuole, anche buonissime, sia in Svizzera sia in Italia, ma poi sul ‘campo’ non mostrano di avere l’abc. Dall’accoglienza all’educazione, nel nostro servizio è fondamentale coccolare il cliente perché da noi si viene per fare un’esperienza. Oltre a presentargli dei menu, l’ospite dev’essere considerato, seguito, portato attraverso un percorso. Ci arrivano tantissimi curricula, di gente che ha ‘vagato’ da hotellerie piuttosto che alberghi, pizzerie, poi stringi stringi sono tutti qua per lo stipendio. Sappiamo benissimo che le buste paga in Svizzera sono alte per la nostra categoria, ma il nostro è un lavoro molto impegnativo che richiede dedizione e passione soprattutto. Oggi invece la passione è quasi sostituita dalla retribuzione. Che per chi vive in Svizzera una retribuzione così ampia è ovviamente equiparata a un’alta qualità di vita, ma non per chi sta arrivando o cercando di arrivare da oltre frontaliera esclusivamente per lo stipendio. C’è poi il risvolto della medaglia: non stanno più arrivando per un problema di reddito di cittadinanza; 1’330 euro in Italia sono soldini, di conseguenza perché devo lavorare e arrivare in un altro Paese? Prendo quello e faccio 4-5 giorni al mese di extra e sono a posto. Siamo in balia di queste assenze. Da una parte facciamo sempre più fatica a trovare persone preparate e volonterose, dall’altra siamo confrontati con personale sempre stanco e logorato soprattutto mentalmente».
A essere cambiato «è anche il modo di pensare – rimarca lo chef Badalucci –. Una volta andare in disoccupazione o essere licenziati era un disonore. Ora si vogliono far licenziare così da andare in disoccupazione. Però quanto costa questo giochetto, chi lo deve poi pagare realmente alla fine?». Per Galbani «non c’è più la ‘vergogna’ di non avere un posto di lavoro e la propria indipendenza economica. La disoccupazione che in Svizzera poteva essere vista come una fortuna oggi è un boomerang... Purtroppo la nuova generazione, quella che dovrebbe essere oggi sul campo, ha avuto due anni e mezzo difficili e impegnativi. Lo stesso hanno vissuto anche le aziende, che hanno però dovuto rimboccarsi le maniche evitando di farsi contaminare da tutto quanto accadeva intorno per mantenere l’obiettivo e le numerose famiglie che ne beneficiano. Certo ci sono anche giovani bravi, ma ne capita uno su 100mila che ha l’umiltà, pur arrivando da una buona scuola, di mettersi in gioco. Dico sempre che senza danza classica non balli il moderno! Solo se partiamo dalle basi potremo un giorno diventare anche dei manager. Trovo assurdo che a 20-25 anni vogliano essere già tutti responsabili e poi apparecchiano al contrario!».
C’è un problema di insegnamento nelle scuole? «La formazione dovrebbe allungarsi sul campo – ammette lo chef –. Uno non può fare un anno di apprendistato e già essere retribuito come un professionista. Quando ho iniziato a lavorare ho fatto 5-6 anni di apprendistato, facevo stage, formazione e qualifica al di là della scuola. Perciò, essendo un imprenditore di frontiera, cerco in primo luogo una figura qualificata, e se non la posso avere dalla disoccupazione, la trovo altrove. Magari ci metterò più tempo ma alla fine la formazione paga sempre». Anche Galbani è dello stesso parere: «Oggi forse c’è troppa teoria e poca pratica. Nel momento in cui si è sotto pressione le dinamiche cambiano, per questo bisogna conoscere perfettamente le regole base. Mi sono imbattuto in gente che non sapeva cosa fosse un coltello del pesce. Ed era diplomato. Oppure mi posizionava il coltello al contrario... Forse nelle scuole vi è in effetti qualche problema. Certo in Svizzera abbiamo ottime scuole, poi però chi esce tende ad andare oltre Gottardo dove prendono il doppio, o più, dello stipendio che prendono in Ticino. Di conseguenza mostrano di non aver più voglia di fare la gavetta ma di puntare subito a stipendi alti». Come coloro che continuano gli studi: «Ci sono capitati anche camerieri che vanno avanti come gerente, con l’università, piuttosto che prendere confidenza con le basi. Cosa capita allora? Teoricamente sono bravi, ma manualmente non sanno fare niente».
Gavetta addio? «Uno stagista che non ha un minimo di basi diventa difficile da gestire – rimarca Galbani –, non sempre è scontato l’affiancamento al maître per imparare come ci si comporta al tavolo. Pensare di prendere un ragazzo alle prime armi significa impegnarsi e iniziare dalle basi. E non è facile far crescere qualcuno all’interno di piccole e medie strutture quando si trovano ragazzi con poca voglia di crescere. Questo lavoro lo si sceglie per missione, è infatti uno di quei lavori che lo devi amare per forza, altrimenti non lo sceglieresti mai, sia per gli orari sia perché è un lavoro più maschile, purtroppo, in quanto si ha meno responsabilità e presenza fisica in famiglia. Se lo fa una donna deve quasi sempre mettere da parte quello che è il desiderio di una famiglia. Trovo difficile nel nostro settore abbinare le due cose: si entra alle 9 del mattino, poi dalle 9.30 alle 10 c’è la sala, infine con lo spezzato prima delle 23.30-mezzanotte non si è a casa. Può comprendere come la gestione familiare sia quantomeno difficile». Una linea di cesura c’è in particolar modo fra la scuola e l’inizio del lavoro: «Una volta diplomati – aggiunge Badalucci – c’è una linea di passaggio che dovrebbe essere più lineare. E bisognerebbe arrivarci più pronti... È successo di personale che per troppa emotività nei primi giorni di lavoro aveva il mal di pancia, svenivano...».
La sostanza resta fondamentale: «L’accoglienza è un punto fermo» ribadisce Badalucci. Non è un caso che la figura del lavapiatti, come puntualizza ancora Galbani «veniva poca considerata. Se in passato lo andava a fare chi non aveva voglia di lavorare, chi non aveva una grande intelligenza, chi se la poneva come ultima spiaggia, oggi non è trascurabile, a partire dall’igiene e dalla buona detersione di una stoviglia. È come la tela di un quadro dove poi la cucina e la ricerca dello chef la va a completare con la sua esperienza. Se io ho una macchia o un alone, tutta la catena va a perdere di valore. Ecco perché se il cameriere non sa fare il suo mestiere e non se ne accorge e mi appoggia il piatto sul tavolo è la fine, ed è qui che inizia la figura... quella brutta». Le trasmissioni tv hanno aiutato nel creare fascino attorno a queste professioni? «Mi ritengo fortunato, vengo dall’isola di Procida, in Campania, dove mia mamma e mia nonna cucinavano, e mio papà andava a pescare e portava il pesce a casa. C’era quindi già in famiglia una cultura del cibo. I ragazzi di oggi specialmente nelle grandi città la vivono diversamente, si mangiano i surgelati piuttosto che cibo veloce. Poi vedono la televisione e credono che sia tutto facile, che in due anni uno sia già uno chef. Per questo preferisco considerarmi un cuoco!» è la riflessione di Badalucci. Pare che manchi conoscenza degli ingredienti: «Le trasmissioni sono basate sulla cucina ma mai sul servizio, trovo che abbiano rovinato il valore assoluto degli chef o dei cuochi in generale. C’è lo spettacolo ma non si conoscono le varie cotture, le tempistiche, le varie consistenze, i sapori, gli equilibri. La cucina e la pasticceria soprattutto sono chimica. Per questo mi sento di dire che – aggiunge Galbani – la tv ha rovinato la loro ricerca, la loro continua formazione. E poi vi è la curiosità. Oggi manca assolutamente, non c’è il desiderio di andare a fondo sulla materia prima. A prescindere da come può essere fatta una salsa, non si riconosce neppure un branzino da un rombo. Invece, se vuoi fare questo lavoro devi andare al tavolo preparato altrimenti finirai per fare una figuraccia. Quando escono i piatti devi esattamente sapere cosa c’è dentro. Oggi il cameriere è un professionista capace di consigliere e riconoscere le intolleranze, le allergie, le contaminazioni, deve sempre aggiornarsi e studiare. Il cliente del resto è molto più informato (vedi la tv ma anche la pandemia che ci ha portati tutti in cucina), la gente viaggia e conosce i migliori ristoranti, l’80% è molto più competente sui vini, una volta non c’era tutta questa cultura, oggi diversamente c’è molto più interesse e maggiore preparazione. Nella stessa Lugano arriva gente dai vari Paesi e culture, e noi dobbiamo essere pronti con tutto il nostro bagaglio».