Il legname a terra e in piedi può sollevare nella società moderna preoccupazioni e domande. Ma non tutto è... un male
Il bosco vive. Eppure, sempre più spesso, è possibile notarne anche la morte. Foglie ingiallite, rami secchi, tronchi inariditi. Per chi frequenta le nostre montagne può essere un’esperienza che in un certo senso allarma, interroga e stupisce. Perché tante piante abbandonate a margine dei sentieri? Nessuno ci pensa più? Non sono pericolose nel caso di forti piogge? A darci una serie di risposte è Roland David, capo della Sezione forestale del Dipartimento del territorio: «Il bosco di per sé potrebbe prosperare anche senza i nostri interventi – esordisce il funzionario –. Questa è una premessa di cui bisogna sempre tener conto. Come autorità cantonale siamo chiamati a intervenire su una serie di svariate esigenze legate anche al mutamento della società». A indicare la strada, in particolare, il Piano forestale cantonale che definisce quali siano le funzioni del bosco e dunque le priorità: «Sappiamo che la prima funzione è quella di protezione. Segue la biodiversità e la funzione paesaggistica, la funzione di svago e, da ultimo, la funzione di produzione».
Un bosco a tutto tondo, dunque, capace di dispensare un‘offerta naturalistica variegata e quindi anche un’attenzione costante: «È chiaro che non possiamo permetterci, perché non avremmo neppure le risorse, di andare a trattare tutti i boschi presenti sul territorio ticinese. Per questo è necessario porre delle priorità. Tanto che nella stessa protezione dobbiamo operare secondo ‘pesi diversi’. Pensiamo alla protezione diretta di tutti i boschi sopra gli agglomerati o i villaggi o ancora sopra le vie di comunicazione che sono chiaramente quelli prioritari. Ma ci sono anche i boschi che svolgono una funzione di protezione diretta nei bacini, in tutte le valli laterali che chiaramente sono anch’essi importanti ma che hanno una priorità inferiore. A ridosso degli agglomerati abbiamo inoltre la funzione di svago che è, a sua volta, importante e che va gestita. Non dobbiamo dimenticare poi la funzione della biodiversità che va considerata in tutte le azioni che realizziamo nel bosco. Un elemento questo sempre più importante, sia per il mondo forestale che in generale per la popolazione. Ecco perché in Svizzera e in Ticino quando si interviene nel bosco si interviene secondo il principio della selvicoltura naturalistica, ovvero con interventi sempre più vicini a quello che farebbe la natura stessa».
Sottobosco
Rami e piante a terra possono però portare a un’immagine di abbandono. Ma c’è un pericolo? «Nella funzione di protezione, che come detto è la prima e più importante, rientrano anche tutti gli alvei dei corsi d’acqua di versante. Chiaramente lungo questi alvei si cerca sempre di avere un occhio vigile e di togliere il legname presente per evitare la formazione di serre. Laddove però non abbiamo questa esigenza di protezione diretta prioritaria vi è una parte di bosco ticinese che viene lasciata, al momento, nella sua evoluzione naturale. È chiaro che chi percorre questi boschi può trovare delle situazioni dove vi sono dei legni morti a terra e in piedi che all’occhio possono sembrare abbandonati, ma in realtà fanno parte dell’evoluzione di un popolamento. Il bosco di per sé, come ho potuto già evidenziare, non ha bisogno dell’uomo per prosperare. Così, nelle sue fasi di sviluppo, è presente anche quella del degrado e successivamente degli schianti, dove poi le superfici si aprono e si può avere una ricolonizzazione. Certo, non è sempre ordinata e pulita nel senso largo del termine, e che viviamo peraltro come stereotipo sbagliato, ma che è diversamente uno stato di disordine naturale che è un po’ il suo ordine. Non per niente quando viene allestito l’inventario forestale i Cantoni vengono valutati, a livello di ricchezza di biodiversità, anche per il legname morto in piedi e il legname morto a terra. Ciò ha in sé un aspetto positivo perché il legname morto in piedi dà tutta una serie di possibilità di trovare rifugio, di sviluppo, permette a tutta l’avifauna la possibilità di trovare il nutrimento e stessa cosa con il legname morto a terra dove si svolge tutto il fenomeno della decomposizione e quindi una ricchezza infinita di biodiversità. Tutto questo cosa ci insegna? Che tutto è relativo, a cominciare dal concetto di bosco pulito, che per noi non è altro che un bosco senza rifiuti».
Appurata l’importanza della biodiversità, il bosco ‘a terra’ può compromettere la libertà di movimento degli animali, pensiamo in particolare agli ungulati, che qui vi vivono? «Assolutamente no – è la chiara risposta di David –. L’animale selvatico è per sua naturale abituato a vivere in questi contesti. Addirittura la presenza di legno morto a terra fa sì che magari l’ungulato giri attorno a questo legname morto a terra e il bosco, non essendo calpestato, può più facilmente rinnovarsi con nuove piantine che, non venendo brucate dalla selvaggina, possono raggiungere una certa altezza per cui dopo non sono più a rischio. C’è insomma tutto un equilibrio molto interessante». Perché comunque dobbiamo curare il bosco? «Perché il bosco lasciato allo stato naturale ha, come anticipato, delle fasi di degrado e di scomparsa, e quindi evidentemente, in quei momenti, le funzioni che noi chiediamo al bosco vengono meno. Per questo, di fatto, cerchiamo di intervenire per fare in modo di avere un bosco che possa garantire in modo durevole la funzione che noi gli chiediamo di svolgere». Resta la necessità di dover porre delle priorità: «È anche una questione di mezzi a disposizione in quanto, non va dimenticato, non potremmo curare tutti i boschi del territorio, ma del resto non avrebbe neppure senso». Ma quanto, dunque, si investe in termini di finanze? «In questo quadriennio l’investimento del Cantone è di 55 milioni di franchi. Circa quindi 15 milioni all’anno ai quali si aggiungono i circa 50 milioni da parte della Confederazione, più il costo residuo a carico dell’ente. Con questo nostro impegno finanziario cantonale noi andiamo perciò a produrre degli interventi per un valore di circa 130-140 milioni di franchi al quadriennio. Sono cifre importanti».
In tutta questa riflessione rientrano di diritto i bisogni mutati della società: «Lo svago e la biodiversità sono bisogni che si sono sviluppati lungo i decenni. In passato il bosco rappresentava soprattutto il sostentamento delle popolazioni. Pensiamo alle selve castanili, con le castagne utilizzate per l’alimentazione e il legname d’opera per la vendita quindi da reddito, il bestiame che vi poteva pascolare. Erano dei bisogni che oggi sono un po’ cambiati, ma la dinamica e le necessità della società nei confronti del bosco sono in parte sempre quelle». C’è in questo in Ticino una differenza regionale? Zone più salvaguardate? «Non direi. Più che regionali, dipende dalla tipologia di bosco. Le selve castanili, importanti per l’attività agricola, ne troviamo in tutto il cantone, e in particolare nel Malcantone, conosciuto come la Mecca delle selve castanili. Nell’Alto Ticino invece sono presenti soprattutto i lariceti pascolati. Chiaro che ci sono dei popolamenti boschivi che hanno delle caratteristiche tali perché sono sempre state gestite anche in sinergia mista con il settore agricolo».
Incontri lungo il sentiero
Protagonisti del variegato mondo dei boschi sono i Patriziati. Come si muovono oggi in questa fase di cambiamento? Gianfranco Poli, segretario dell’Allenza patriziale ticinese, ci porta una risposta: «La nostra legna, purtroppo, non la compera più nessuno. Eppure da opera la richiesta è aumentata del 50%, in particolare da Cina e America. Da ardere diversamente vi è una grande concorrenza da Paesi come Polonia o Estonia che hanno in dotazione macchinari superefficienti. Dalle nostre latitudini il dover coinvolgere, per la conformazione del terreno, gli elicotteri, porta ad aumentare molto i costi dell’esbosco. Si può pensare anche alla teleferica, ma non è possibile ovunque. Un esempio lo abbiamo avuto a Brusino Arsizio dove si è portato via il legname da valle al Serpiano. Certo bisogna sempre considerare di riuscire quantomeno a tirar fuori almeno il costo dell’opera. Oggi nel bosco abbiamo una montagna di legna che nessuno taglia più. E il problema si acuisce quando abbiamo delle piante che durano, come la robinia, di media un trentennio diversamente da alberi più forti e longevi come il faggio o il castagno. Pensi che una volta il Patriziato vendeva persino le foglie utilizzate per lo strame delle bestie presenti nelle stalle. Fino a vent’anni fa si vendeva ancora qualche tonnellata di faggio, mentre adesso arriva dalla Svizzera interna a metà prezzo. Chissà che la questione di un petrolio esauribile e la ‘guerra’ per il gas non porti a un recupero della legna!».