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Metti per l’aldilà una bara in banano o ananas selvaggio

L’attenzione all’ecosostenibilità si traduce anche in iniziative legate all’estremo saluto. Ne parliamo con l’impresario funebre Emiliano Delmenico

Addio!
(Ti-Press)
10 dicembre 2021
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Da ecobare di carta o cartone biodegradabili, a quelle realizzate in vimini, bambù e pino, costruite con leganti rigorosamente naturali. Materiali, rispettosi dell’ambiente, ideati con salice o pandanus (ovvero ananas selvaggio) o, ancora, in banano. Un’attenzione per l’ecosostenibilità che il Centro funerario di Lugano coniuga quotidianamente e che implementa continuamente con l’introduzione di nuove tecniche e nuove lavorazioni. Segreti che ci ha svelato Emiliano Delmenico, direttore del gruppo. Impresario funebre di terza generazione, insieme al fratello Gianmaria, dopo il nonno e il padre, si racconta e ci spiega cosa significhi oggi gestire una cerimonia di commiato terreno, soprattutto in tempi di coronavirus.

Siete tra i gruppi a livello svizzero che offrono la possibilità di svolgere dei funerali ‘green’. Di cosa si tratta nel dettaglio?

Si tratta dell’utilizzo esclusivo di urne biodegradabili e di bare prodotte con materiali ecosostenibili. Quando una bara è fatta di quercia, o di rovere, il danno ecologico è particolarmente elevato, perché il ciclo di vita di questi alberi è molto lungo. Utilizzando, invece, del materiale sostenibile, come il banano, che ha invece un ciclo di vita molto più breve, anche l’impatto ambientale diminuisce. In particolare le bare biodegradabili senza vernici tossiche eviteranno di seppellire o emettere in atmosfera con la cremazione, materiali inquinanti e metalli pesanti. Al momento stiamo cercando anche una soluzione così da avere un carro funebre completamente elettrico, oltre alle tre vetture di servizio di cui abbiamo già disponibilità nel nostro parco-auto.

Come siete riusciti ad aggirare “l’ostacolo” pandemia durante i funerali?

I repentini cambiamenti e misure dettati dal Consiglio federale hanno reso difficile attuare delle soluzioni, anche a breve termine. Quello che siamo riusciti a fare, soprattutto quando c’era il limite della presenza di sole cinque persone per funerale, nel pre-certificato Covid, è stato creare una diretta streaming delle cerimonie. La perdita però del contatto fisico tra famigliari e il non poter salutare di persona le persone amate è stato un momento particolarmente difficile.

Come gestisce, a livello emotivo, una cerimonia funebre?

La divido in tre fasi: la prima, è quella del contatto. Ovvero quando un familiare viene nel mio ufficio o mi telefona per discutere del funerale. Il decesso del proprio caro è solitamente appena avvenuto, quindi ascolto e cerco in tutti i modi di assecondare il cliente. Ma devo anche imporre un certo ritmo alla conversazione e “costringerli’’ a prendere delle decisioni in merito alla cerimonia. Non è facile, perché la mia oggettività non si sposa sempre con i bisogni e i tempi della persona con cui mi relaziono.

Le altre due fasi?

La seconda riguarda il funerale in sé: le persone a questo punto capiscono che io sono lì per guidarle e aiutarle, viene meno quindi quella sorta di barriera emotiva che inevitabilmente si era creata all’inizio. L’ultima fase è quando ci si reca, solitamente dopo un paio di giorni, al cimitero per portare l’urna o la salma. La mia figura a questo punto è quella di una persona fidata. Perché entrambe le posizioni, la mia e quella del cliente, sono mutate. La mia emotività, in sostanza, deve essere calibrata in base al momento e allo stato del famigliare.

Quali sono i momenti più delicati durante l’estremo saluto?

Quando sei costretto a chiudere definitivamente la bara e il momento della cremazione. Il famigliare capisce che è l’ultima volta che vedrà il suo caro. È un lavoro complicato, ma qualcuno lo deve fare.

In che cosa consiste il trattamento estetico della salma?

Nel rallentare la decomposizione del corpo e nel coprire i segni della morte. In gergo, rispettivamente, queste azioni vengono chiamate tanatoprassi e tanatoestetica. Nella prima rimuoviamo gli elementi che sarebbero nocivi per la conservazione del corpo, come il sangue e i residui che sono rimasti nei polmoni o nello stomaco. Nella tanatoestetica invece eseguiamo trattamenti mirati per rendere il defunto “composto”, come la pulizia del corpo con prodotti specifici e la rimozione o la copertura dei segni lasciati dalla morte.

Perché secondo lei la morte fa paura e crea disagio?

Credo sia la paura dell’ignoto. Fin dallo stato ancestrale l’uomo non è mai pronto nel “non conoscere”. Ognuno di noi cerca di trattare questo che rimane un tabù in modo diverso. Ci sono i credenti, che si aggrappano alla fede. Altri guardano la morte da un punto di vista filosofico e all’estremo ci sono i nichilisti. C’è poi da menzionare anche la rappresentazione della morte all’interno della nostra società, che ha creato un immaginario collettivo di un certo tipo, influenzandoci, nei diversi casi, in maniera positiva e negativa.

Ha un metodo per non portarsi il lavoro a casa?

No. Tutti noi, in un modo o nell’altro, portiamo a casa la nostra professione. L’importante è sapere di aver fatto il massimo nella gestione di un caso. Cerco ad ogni modo di occuparmi dei miei interessi e hobby. Come sciare o stare con mia figlia. E poi la lettura. Leggo di tutto, da tematiche inerenti alla mia professione alla narrativa più fantasiosa. Tra l’altro, soprattutto da ragazzino, il mio scrittore preferito era Stephen King.

Ritiene che esistano ancora dei pregiudizi sociali riguardo alla sua professione?

Assolutamente sì. Però non in modo dispregiativo, ma scherzoso. Capita spesso che, quando faccio la conoscenza di una persona, e lui o lei mi porge la mano, con l’altra si tocchi le parti intime per scacciare eventuali scenari riguardanti la morte. Comunque, nella maggior parte dei casi, le persone che per la prima volta scoprono che professione faccio diventano curiose e mi fanno mille domande.