Condannato a 3 anni e 6 mesi l’amministratore 45enne di una società luganese che aveva fatto credere agli investitori di un redditizio commercio d’oro
Ai suoi clienti faceva credere di aver avviato un redditizio commercio d’oro in Africa. Peccato però che gli investimenti si erano poi rivelati sbagliati o inesistenti risucchiandolo in un vortice di indebitamento e di mancanza di liquidità dal quale non ha saputo riaffiorare. È così stato condannato a tre anni e sei mesi da espiare (espulsione per sette anni) l’amministratore unico di una società anonima con sede a Lugano. La Corte delle Assise criminali, presieduta da Amos Pagnamenta, affiancato dai giudici a latere Aurelio Facchi e Luca Zorzi, lo ha riconosciuto colpevole di ripetuta truffa qualificata e appropriazione indebita. Fra il 2014 e il 2019 l’uomo ha sottratto dalle tasche di 29 clienti e dalle loro cassette di sicurezza, fra contanti e metallo prezioso, una cifra pari a oltre 2 milioni e 200mila franchi.
L’operazione aurifera con la quale ha preso avvio la raccolta di fondi aveva «un’intenzione difforme da quanto pattuito con il cliente – ha spiegato il presidente nel commentare la sentenza –, ha infatti proseguito senza ammetterne mai il fallimento». Una colpa giudicata dunque grave dal punto di vista oggettivo, perché ha agito sull’arco di molti anni, compromettendo l’immagine della piazza finanziaria ticinese, e soggettivo per «la preoccupante propensione a delinquere» ha sottolineato Pagnamenta.
«Non ho una mente criminale – si è da parte sua smarcato l’imputato nel corso del dibattimento –, mi resta invece un grande senso di colpa e un forte disagio per il danno arrecato. Ho fatto tanti errori, ma non volevo che a pagare fossero i clienti così ho cercato di rimettere tutto in carreggiata, ma non ci sono riuscito. Mi dispiace essere additato come truffatore, faccio fatica a mandarlo giù. Ho cercato di recuperare gli errori, ma non ci sono riuscito, le operazioni non bastavano mai. Se avessi la bacchetta magica ripianerei tutto».
Per la procuratrice pubblica Raffaella Rigamonti, titolare dell’inchiesta che ha definito «di una certa complessità», il 45enne, cittadino italiano, «era consapevole sin dall’inizio degli investimenti che l’attività fosse compromessa, non si è trattato di un caso. Ha invece ingannato i clienti e i procacciatori sfruttando il rapporto di fiducia e mettendo in atto un vero e proprio castello di menzogne. L’imputato è partito fin dall’inizio con il piede sbagliato in quelli che, verrebbe da dire, erano dei non-investimenti, perché di investimenti ce ne sono stati davvero pochi. Ha fatto credere che andasse tutto bene e che ci fossero dei guadagni, invece agiva attraverso il classico sistema del buco tappa buco. Era una persona credibile in quanto sapeva vendersi bene, agendo senza scrupoli e per indebito profitto».
Negli anni, secondo l’accusa, che ha ricordato i procedimenti penali in atto in Italia, l’imputato ha incassato e utilizzato nella sua attività circa 10 milioni di franchi. È stato proprio grazie a un’inchiesta avviata nella Penisola che nel gennaio 2020 è stato estradato in Svizzera per mezzo di un ordine di arresto internazionale. «Se all’inizio ha rilasciato una piena collaborazione, tanto che sembrava ammettere e assumersi le responsabilità, successivamente ha poi contestato il tutto – ha ricordato la pp –, eppure era lui ad amministrare la società e sapeva che i fondi non sarebbero stati utilizzati per investimenti ma per coprire perdite, oltre che a suo favore. ‘Era l’unico modo di continuare con il business’ sono state le sue parole durante gli interrogatori». Da qui la richiesta di tre anni di carcere per truffa per mestiere: «Ha valicato il limite della legalità con leggerezza. Aveva tutte le possibilità per fermarsi ma si è ben guardato dal farlo, ledendo crassamente la fiducia dei clienti per anni» ha chiosato Rigamonti concedendo le attenuanti in considerazione «di una certa collaborazione almeno iniziale, del tempo trascorso dai fatti e dell’incensuratezza». Solidali nell’accusa i rappresentanti di parte civile presenti in aula, fra di loro l’avvocato Bruno Mazzola che ha paragonato i lingotti mostrati ai clienti «come i carrarmati esibiti durante la Seconda guerra mondiale...».
Proscioglimento è quanto chiesto, invece, dalla difesa per voce dell’avvocato Federico Forni: «Il mio assistito non ha mai cercato di nascondere nulla raccontando per filo e per segno i fatti e assumendosi le proprie responsabilità. Non ha mai fatto la cosiddetta bella vita, rimanendo sempre al comando e pagando gli errori di altri. È tuttora convinto che se non fosse stato arrestato sarebbe riuscito ad onorare i suoi impegni».