Il Tribunale penale federale respinge il ricorso di un cittadino italiano, residente in Svizzera dal 1978, accusato di contatti con la 'Ndrangheta
Carcere è e carcere sarà. È chiaro il Tribunale penale federale nel respingere il ricorso di un cittadino italiano, residente in Svizzera dal 1978. Lo scorso 15 giugno, infatti, davanti all'uomo si sono aperte le porte di una prigione. Contro di lui pesano gravi accuse, quelle di far parte a pieno titolo della 'Ndrangheta e di aver partecipato al trasferimento fraudolento di valori con finalità di agevolazione mafiosa. Insomma, non proprio 'bagatelle', tanto che la prospettiva, se condannato, è di una pena importante, come evidenziato dai giudici.
L'uomo aveva ricorso contro l'arresto, emesso dall'Ufficio federale di giustizia, su richiesta di un mandato europeo sottoscritto dal Tribunale italiano di Catanzaro in attesa dell'estrazione nella penisola. Per gli inquirenti farebbe parte del cosiddetto 'Crimine di Polsi', legato alla cosca Anello-Fruci e dunque collegato alla criminalità organizzata calabrese che proprio in Svizzera, e anche in Ticino, ha le sue ramificazioni. Accanto al fratello, anch'egli residente nella Confederazione e protagonista di un procedimento penale, avrebbe promosso l'approvvigionamento di armi all'organizzazione e curato gli interessi economici, "mettendosi a disposizione del sodalizio criminale, segnatamente apparendo quale intestatario fittizio di beni e attività riconducibili all'organizzazione" si legge ancora nella sentenza della Corte dei reclami penali.
Giusto una settimana dopo l'arresto, l'italiano aveva richiesto l'effetto sospensivo, contestando l'esistenza del pericolo di fuga. Non dello stesso avviso i giudici che hanno ricordato come "per costante giurisprudenza, durante tutta la procedura di estrazione la carcerazione della persona perseguita costituisce la regola mentre la scarcerazione rimane l'eccezione". Il Tribunale federale, non ha mancato di ricordare, ha già avuto modo di negare la scarcerazione di una persona i cui legami con la Svizzera erano indiscussi: "In concreto, non si è manifestamente in presenza di circostanze particolari che imporrebbero di derogare, in via eccezionale, alla regola della carcerazione". Né il permesso C, né il fatto di risiedere in Svizzera da oltre quarant'anni, né il fatto di viverci con moglie e quattro figli di nazionalità svizzera, sono "constatazioni sufficienti ed idonee – puntualizza la presa di posizione – a dimostrare legami od ostacoli tali da scongiurare il pericolo di fuga, ciò soprattutto alla luce dei gravi reati che gli vengono contestati in Italia, i quali, se dovessero essere confermati, potrebbero sfociare in una pena importante".
Il Tribunale non ha neppure accolto la proposta dell'uomo di sostituire la carcerazione con il versamento di una cauzione, il deposito del passaporto e l'obbligo di annuncio: "Orbene, ritenuta in particolare la possibilità di condanna a una pena detentiva di lunga durata – rimarca – le misure in questione non sono di per sé sufficienti a scongiurare un pericolo di fuga". Per questo, sussistendo un reale pericolo di fuga e in assenza di altra soluzione equivalente nei suoi risultati ma meno incisiva, il provvedimento impugnato non può essere considerato lesivo del principio della proporzionalità, ha chiosato la Corte: "Il reclamo va respinto e la detenzione estradizionale confermata".