Luganese

Tappeti acquistati, casse malati truffate: doppia sentenza

Il commerciante del Luganese prosciolto dall'appropriazione indebita, ma condannato con la figlia per aver emesso false fatture per prestazioni estetiche

Contabilità (Ti-Press)
8 luglio 2021
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Quel contratto di compravendita è stato «in realtà» concluso. È, dunque, caduta per l'82enne iraniano, commerciante da un trentennio sulla piazza luganese, l'accusa di appropriazione indebita mossagli dalla procuratrice pubblica Raffaella Rigamonti. La Corte delle assise criminali, presieduta dal giudice Amos Pagnamenta, lo ha prosciolto. Pur avendo rilasciato, nel corso dell'inchiesta, dichiarazioni non lineari e non coerenti, diversamente dalla costanza nella sua testimonianza da parte dell'accusatore privato, vi erano elementi tali da screditare la tesi che i cinque tappeti fossero solo in prova. Non solo perché non sarebbe giustificabile un versamento da parte del potenziale acquirente dell'intero costo, ma soprattutto perché supportato dalla volontà di quest'ultimo di voler restituire i preziosi 'persiani' dopo che l'assicuratore aveva indicato un valore notevolmente inferiore. Una diatriba che la Corte ha, dunque, giudicato «puramente civilistica» rimandandola al foro competente.

E se da una parte è stata assoluzione, dall'altra l'ottantenne è stato invece condannato, insieme alla figlia, per ripetuta truffa qualificata, siccome commessa per mestiere, e ripetuta falsità in documenti. «Nel centro estetico – ha esordito Pagnamenta – vigeva la prassi della fidelizzazione delle clienti proponendo prestazioni per trattamenti non riconosciuti dalle casse malati ma diversamente facendoli figurare come tali. Come peraltro evidenziato, attraverso una segnalazione anonima, in un'inchiesta radiotelevisiva del 2012». La 57enne, che gestiva lo studio, aveva del resto sempre ammesso i fatti così la nipote e diverse clienti. Non così il padre e nonno che, è stato ribadito, si occupava in prima persona della contabilità, anche per i tratti socioculturali del Paese d'origine, non ha mancato di puntualizzare il presidente. Imputato peraltro refrattario alla trasparenza tanto da trincerarsi dietro a ritrattazioni e alla facoltà di non rispondere: «Anche per questo la chiamata di correo è lineare» ha sentenziato la Corte, condannando l'uomo a 14 mesi e la donna a dieci. Un reato aggravato dal lungo periodo intercorso (quattro anni) e per l'importo di oltre 655mila franchi spalmati su ben 574 false fatture: «Senza dimenticare – ha chiosato Pagnamenta – che vi facevano conto con fare truffaldino per incrementare le loro entrate e quindi per scopo di lucro».

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