In agosto si è tenuta in Lavizzara la scuola estiva dedicata ai rischi ambientali. Ne abbiamo discusso i risultati con l'urbanista Paola Rizzi
Il paese cambia. Anche a seconda degli occhi con cui lo si guarda. L’architettura di un edificio; la forma di un’installazione; l’angolo in cui si intrecciano due strade possono incuriosire il turista e al contempo lasciare indifferente l’abitante, oramai abituatosi. Ma c’è anche un terzo punto di vista: quello di chi progetta quel luogo. Un urbanista, un pianificatore, un architetto o un ingegnere con che sguardo osserva il paese?
«Sicuramente in modo differente, più pratico e meno incentrato su una formale estetica. Spesso per questo noi pianificatori territoriali veniamo paragonati a delle Cassandre; quelli che hanno da ridire su qualsiasi iniziativa, quelli che frenano progetti poiché poco sicuri o sostenibili».
A rispondere è Paola Rizzi, urbanista e docente all’Università di Sassari che da anni svolge - a cavallo fra l’Italia, la Svizzera e i Paesi asiatici - attività di ricerca nell’ambito del design per la riduzione del rischio e della mitigazione dei disastri. La professoressa Rizzi si occupa anche di organizzare la scuola estiva internazionale "Awareness & Responsibility of Environmental Risk” (consapevolezza e responsabilità del rischio ambientale). La scuola, giunta alla sua tredicesima edizione, ha visto la partecipazione di 25 studenti di urbanistica, pianificazione e community development italiani e giapponesi che, riunitisi a Fusio per il secondo anno consecutivo, hanno svolto diversi lavori e simulazioni. Insieme alla docente, laRegione ne ha discusso i risultati.
«Il ruolo dell’urbanista è quello di abbracciare quante più informazioni possibili utili alla gestione del territorio. È un lavoro d’insieme; fatto cominciando a interrogare il geologo, gli ingegneri, gli architetti, ma anche chi si occupa dei rischi, gli ambientalisti e poi soprattutto la comunità. Un’operazione questa che in futuro, sempre più spesso, si dovrà ritornare a fare». La professoressa Paola Rizzi, nel descrivere il mestiere, non ha dubbi sull’importanza che questo ha all’interno del processo riguardante la pianificazione territoriale. Per tale ragione è necessario uscire dalle mura accademiche - dove si studia e si apprende la teoria - e recarsi direttamente sul luogo, per comprenderne appieno la natura e le peculiarità.
È questo l’obiettivo della scuola: aiutare gli studenti a capire che in ambito di pericolo, vulnerabilità e rischio esistono dimensioni diverse che richiedono competenze trasversali e approcci differenti, come ci spiega la stessa professoressa Rizzi: «I temi trattati durante la dieci giorni sono diversi. Si va dalla pianificazione e costruzione di torri per l’evacuazione alla comunicazione e prevenzione durante disastri come incendi, terremoti e alluvioni. Si parla poi anche di come pianificare e gestire una città vivibile e sostenibile, durante il tempo di pace, e sicura per quanto possibile durante un evento calamitoso. Mettiamo poi l’accento su un approccio che includa la pre-disaster planning anziché intervenire solo nel post disastro con piani di ricostruzione».
La scuola internazionale si svolge in due edizioni durante l’anno: una primaverile che si tiene in Giappone e quella estiva che è stata organizzata in diverse regioni d’Italia, Romania e Svizzera. Ma cosa c’entra Fusio con tali realtà e con eventi estremi come inondazioni e terremoti? «Quando parliamo di rischio non dobbiamo solo pensare a sismi o altre calamità naturali, ma anche a cambiamenti globali come quello climatico, alle migrazioni o alle dinamiche demografiche. Lo spopolamento è un fenomeno appunto globale che, come il caso di Fusio, diventa di carattere prettamente locale», spiega Rizzi.
Il tema dello spopolamento è stato l’argomento principe in entrambe le edizioni svolte a Fusio. Nel 2022 si è discusso e sviluppato progetti che prevedevano trasformazioni territoriali di forte impatto e che andavano a toccare settori produttivi come l’agricoltura, ma anche il turismo e gli stili di vita della popolazione. Quest’anno invece ci si è concentrati maggiormente su piccoli progetti e sulla comunicazione.
«Pianificare vuol dire porsi degli obiettivi, e porsi degli obiettivi significa avere una strategia. Per raggiungere questi obiettivi e quindi rafforzare la nostra strategia, è utile sviluppare e attivare delle tattiche. Ovvero azioni ed elementi, anche all’apparenza banali, in grado però di trasmettere dei messaggi ai vari attori coinvolti. Pensiamo alle zone d’incontro, alle bibliocabine, alle panchine contro la violenza domestica. Sono piccole iniziative che, in primo luogo, fanno parlare di noi come paese e poi, cosa più importante, trasmettono agli abitanti - o potenziali - determinati messaggi: di vicinanza, di attenzione verso la cultura, la socialità, la famiglia e le sue esigenze. Per questo abbiamo puntato sul tema della comunicazione. Lavorando con le comunità, qualcosa si ottiene», illustra Rizzi.
Entrando nel merito delle proposte sviluppate dagli allievi, c’è chi ha avuto l’idea di costruire un punto di ritrovo per l’accoglienza dei turisti. Una sorta di buffer e zona d’attesa, co-gestita dal Comune e dai compaesani, dove il forestiero può trovare informazioni di vario genere. C‘è poi chi ha voluto giocare la carta della “nostalgia”. La mancanza (subito osservata dagli studenti) di negozi e attrazioni ha fatto sì che pensassero a riportare in vita servizi che un tempo animavano la valle, come il recupero del vecchio furgoncino Migros, la creazione di un mini mercato itinerante, oppure ancora un cinema all’aperto nei pressi della Diga.
Altra iniziativa presentata è stata quella di recuperare i rustici per crearci dei luoghi di ritrovo diffusi. Luoghi dove poter fare coworking, ma anche delle coabitazioni per anziani oppure ancora spazi liberi indirizzati a microattività: il salone per parrucchieri, una macelleria, un piccolo ufficio postale. Insomma, un centro che si articoli anche all’interno di un unico edificio, ad esempio l’ex-casa comunale, che si connetta e permetta usi diversi e comuni spazi.
«Tutti i progetti si sono rivelati molto interessati. Solitamente al termine della scuola estiva presentavamo quanto fatto al Municipio ma quest’anno, per questioni legate alle tempistiche, non è stato possibile», spiega la professoressa.
Parlando di centralità in relazione al contesto valmaggese vengono subito in mente realtà come Maggia, dove si è voluto creare un centro che racchiudesse tutti i servizi di base oppure ancora ad Avegno-Gordevio con il "Centro Valle”. Potrebbe essere una strategia applicabile a Comuni di montagna come Lavizzara?
«Sì, anche se bisogna fare delle distinzioni. Avegno-Gordevio è un paese a pochi passi dalla città. Maggia no, ed è l’esempio virtuoso di queste piccole centralità, che devono essere quello che muove politica e vita di un paese. –; spiega la nostra interlocutrice, che prosegue – In Vallemaggia, così come in Ticino, ci sono bellissime idee e iniziative. Il problema è che spesso si rivelano essere delle cattedrali nel deserto perché carenti di strategia. Quella che gli studenti, attraverso gli slogan, hanno cercato di mettere in pratica: “Essere di Fusio, appartenere a un territorio, riaprire, riconnettere, ridefinire”. Manca una politica che tenga conto dell’ora, della situazione in cui ci troviamo e dove vogliamo andare come comunità. Sennò son solo etichette: “La metropoli Ticino”, “Ticino: la città diffusa” (che qui viene usato a sproposito per indicare lo sprawl urbano), “spopolamento delle valli e dei territori” e poca consapevolezza di cosa accade e perché».
Ma c’è poi un altro elemento che, secondo la professoressa Rizzi, è importante sottolineare, ovvero la coerenza. Infatti troppo spesso, parlando di strategia, vengono diffusi messaggi e azioni contraddittorie: si vuole cercare di frenare, o quanto meno tamponare l’emorragia di persone che scelgono di abbandonare la valle, ma al contempo stesso ci si concentra su una politica prettamente legata al settore turistico. «Credo che il turismo non sia la panacea di tutti i mali. Infatti durante la scuola estiva ci siamo fermati a ragionare a Fusio in termini di produzione, di sostenibilità economica, e sostenibilità energetica, grazie anche alla presenza di una diga (ndr: quella del Sambuco) a pochi passi da noi. Le potenzialità e le offerte sono tante. Bisogna riordinarle e capire come metterle - dal punto di vista dell’imprenditoria - a sistema, per poter funzionare al meglio e con efficacia».
Il discorso fatto poc’anzi deve però essere inserito in un ragionamento che tenga conto anche del rischio. Perché oltre allo spopolamento, il nostro territorio non è risparmiato dai cambiamenti climatici. Le grandinate di fine agosto nel Locarnese - che hanno lasciato impreparate sia popolazione sia le autorità - ne sono (fra i tanti) un esempio.
«Esatto. Perché il rischio, qualsiasi esso sia, riguarda tutta la trasformazione del territorio. E nel nostro caso, questo sta purtroppo diventando sempre più evidente: si tende a sottovalutare il rischio, sebbene i pericoli aumentino. In Italia - paese che è a rischio idrogeologico per il 70% del suo territorio - ci si ritrova confrontati con alluvioni ogni anno. Eppure si continua a costruire dove non si può e a non educare correttamente la popolazione sul come affrontare tali fenomeni. E la stessa cosa sta accadendo in Svizzera. Anche se dal punto di vista della percezione sembra non essere così».
E riguardo alla gestione del rischio e delle informazioni diffuse, che consapevolezza c’è in Ticino? «Da urbanista dico scarsa, parziale e molto tattica. Bisogna esser concreti e per poterlo fare è necessario avere chi è in grado di vedere le problematiche, chi a sviluppare diagnosi e chi elabori delle strategie e obiettivi da raggiungere. Certo, è impensabile che ciò avvenga durante una scuola di dieci giorni e per giunta con un gruppo di studenti stranieri, che mai prima d’ora avevano messo piede in Svizzera. Però all’interno di una comunità, fatta di cittadini, politici, enti e associazioni sì. E forse è anche giunto il momento di farlo».