I legali degli imputati, tra cui figurano Rudy Chiappini e Pietro Pedrazzini, mettono però in dubbio l'attendibilità della docente
Firme "surreali e pasticciate", sguardi "inespressivi e fissi", tele invecchiate ad arte e con materiali "incompatibili all'epoca di Modigliani", ma anche un "falso postumo" e cioè un dipinto iniziato dal pittore livornese ma finito da altri.
È quanto emerso nel corso dell'esame di Isabella Quattrocchi, l'esperta nominata dalla procura di Genova nell'inchiesta sui 20 dipinti esposti a Palazzo Ducale e sequestrati dopo la denuncia dell'esperto Carlo Pepi.
Per i legali degli imputati, però, la docente non sarebbe attendibile come dimostrerebbe una sentenza del tribunale di Milano sulla vicenda delle opere dell'artista milanese Eduarda Maino, nota come 'Dadamaino'.
Quattrocchi ha ripercorso la sua relazione con la quale ha illustrato i motivi per cui secondo lei 20 opere sulle 21 opere sequestrate, erano false: dai colori usati, alle firme, passando per i lineamenti dei volti ritratti, fino alle tele.
Nel corso dell'audizione c'è stato anche un colpo di scena. L'esperta riferendosi al dipinto Testa di donna-Ritratto di Hanka Zborowska, sequestrato dalla Procura insieme agli altri, avrebbe detto che si tratterebbe di "un falso postumo". "Potrebbe essere un'opera iniziata da Modigliani e finita da altri", ha detto in aula.
A processo, per truffa, falso e contraffazione di opere, ci sono sei persone: il curatore della mostra Rudy Chiappini, già direttore del Museo d'arte moderna di Lugano e dei Servizi culturali della Città di Locarno; Pietro Pedrazzini, scultore svizzero, proprietario di un "Ritratto di Chai Soutine" che secondo gli investigatori piazzò come autentico pur sapendolo falso; Massimo Zelman, presidente di Mondo Mostre Skira, che organizzò la mostra; Joseph Guttman, mediatore con base a New York e proprietario di molte delle opere sequestrate, Nicolò Sponzilli, direttore mostre Skira; e Rosa Fasan, dipendente Skira.
Secondo gli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo D'Ovidio, attraverso l'esposizione alla mostra si voleva rendere autentiche delle opere false per acquisire una maggiore quotazione e rivenderle a prezzi stellari nel centenario della morte di Modì. Per i legali degli imputati, invece, le opere sono autentiche.