Locarnese

Prestito o no, gli interessi sono altissimi

A processo in appello l'avvocato di Muralto che avrebbe malversato i soldi di una cliente. L'accusa chiede 22 mesi, la difesa l'assoluzione

Utilizzati fra i 227mila e i 281mila franchi di una cliente
(Ti-Press)
24 marzo 2021
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«Sono pronto a tagliare il cordone ombelicale con un limbo disorganizzativo che ha radici nel passato, e che ho trovato nel momento stesso in cui ho cominciato a fare la pratica sotto mio padre. Lo dico senza rimproveri. Per fare un passo avanti mi sono fatto aiutare da due persone a cui ho chiesto di credermi: una è il mio avvocato. Stavo franando dalla sofferenza di sentirmi dare del bugiardo e del ladro». È un passaggio della dichiarazione finale, pronunciata da imputato, dall'avvocato 60enne di Muralto processato in appello per ripetuta appropriazione indebita qualificata dopo una condanna in prima istanza a 1 anno e 3 mesi di detenzione sospesi.

“Libero accesso ai soldi”

I fatti contestati risalgono al periodo compreso fra il 2013 e il 2015, quando il legale, da notaio, rogò il passaggio di proprietà di un rustico, divenne amico della venditrice (una donna germanica poi defunta nel 2014) ed utilizzò buona parte dei proventi per appianare suoi debiti privati. A suo dire – ed è la versione già sostenuta in parte senza successo in prima istanza dal suo legale Diego Olgiati – lo fece forte della concessione di prestito “libero” (o senza limiti) concessogli oralmente dalla donna. Elemento cardine di questa “verità” è una telefonata in cui la benefattrice, rispondendo ad una richiesta di aiuto finanziario avanzata per e-mail dall'avvocato, si sarebbe presa carico della situazione ben oltre i 30mila franchi domandati dall'uomo, lasciandogli in pratica libero accesso al suo conto cliente.

Diametralmente opposta la versione dell'accusa – sostenuta dal procuratore generale Andrea Pagani – convinta che quella telefonata non ci fu ma fu anzi «inventata» a posteriori «per giustificare una ventina di indebiti prelievi». Parliamo di una cifra variabile fra i 227mila franchi riconosciuti dalla Corte di prima istanza e i 281mila franchi sostenuti invece dall'accusa, che proprio sulla base di questa differenza aveva presentato appello incidentale chiedendo la conferma integrale dell'atto d'accusa.

“Lo ammetto: sono stato un asino”

Di alto livello, a dibattimento, è stato il lavoro svolto sia dall'accusa, sia dalla difesa, accomunate per altro dallo sconcerto di dover trattare il caso di un avvocato, notaio e penalista di buona fama e riconosciuta intelligenza, ma purtroppo da sempre incapace di occuparsi come si deve «delle questioni pratiche della sua attività», come sottolineato da Olgiati.

Olgiati «al quale per migliorarmi – ha detto l'imputato – devo dare ragione e ammettere che sono stato un asino. Ma in oltre 30 anni di esperienza in aula penale sia come difensore, sia come accusatore privato, non ho mai né costruito né utilizzato carte false, e non ho iniziato a farlo a mia difesa. Ho sempre portato unicamente parole, ragionamenti e genuinità; talvolta, qualche ingenuità. Se ho perso diversi mandati è perchè mi sono sempre rifiutato di fare carte false in istruttoria».

Per il pg Pagani, nello specifico, «l'imputato non è credibile, si è indebitamene appropriato di soldi che non era in grado di restituire e ha utilizzato il conto clienti come un bancomat. Ha tradito la pubblica veste e la fiducia della cliente». Il magistrato ha chiesto un aumento della pena a 22 mesi, sospesi per un periodo di prova di due anni. 

Le “aberrazioni” di prima istanza

Alla base dell'arringa che ha portato Olgiati a confermare la sua richiesta di assoluzione v'è invece un distinguo importante: «Non tutto ciò che è deontologicamente scorretto dev'essere oggetto di un reato penale. Questa situazione è oggettivamente brutta, ma il pensiero del giudice non dev'essere ingabbiato in un tunnel cognitivo. È necessario sondare a fondo l'ipotesi accusatoria, non limitarsi a confermarla». Ovvero ciò che, secondo il legale, avrebbe fatto la Corte di prima istanza, della quale sono state passate in rassegna «le aberrazioni» iscritte a sentenza. «Nel processo civile – ha detto fra l'altro Olgiati – l'onere della prova spetta a chi vuol far valere un diritto. In quello penale, nella nostra fattispecie, lo Stato deve dimostrare al di là del ragionevole dubbio che non vi è stato un prestito. E sempre deve valere la presunzione d'innocenza», a favore della quale parlerebbe il rapporto di profonda amicizia fra l'imputato e la donna, «che non va banalizzato».

Come, dal punto di vista dell'accusa, non vanno banalizzate altre evidenze. Una è legata alle dichiarazioni al fisco del presunto prestito: «Non troviamo niente per l'anno fiscale 2013, mentre per il 2014 la dichiarazione appare soltanto nel 2016, fatta a posteriori e maldestramente, quando la diga stava per cedere».

La Corte, presieduta dalla giudice Giovanna Roggero-Will, comunicherà la sua sentenza nelle prossime settimane.