Come hanno attraversato questi anni il guardiano dei Cappuccini di Faido, i suoi confratelli e la comunità leventinese?
«Almeno credo», «magari mi sbaglio», «per quel che ho visto io», «ora però non voglio esagerare»: quando chiediamo a Fra Edy Rossi-Pedruzzi di stilare una sorta di bilancio dopo due anni di pandemia, capiamo subito che non sarà la predica d’uno che crede di avere la verità in tasca. Il parroco delle tredici comunità di Faido, guardiano dei Cappuccini locali, è di facile autoironia e soprattutto sta molto attento a non generalizzare quel che ha visto in valle, anche se un’idea se l’è fatta: «Ne usciremo tutti migliori, come dicevano alcuni all’inizio? Francamente non credo, semmai abbiamo accumulato qualche esperienza di cui far tesoro, abbiamo imparato ad apprezzare cose che si davano per scontate. Un po’ come i ragazzini ai quali insegno religione, che quando nel 2020 hanno chiuso le scuole saltavano di gioia – l’avrei fatto anch’io al posto loro, intendiamoci –, ma poi si sono accorti di cosa perdevano, di quanto gli mancassero i loro compagni. Da allora mi pare che vengano a scuola con molto più piacere. Almeno per rivedere gli amichetti, dico, non pretendo che sia per l’ora di religione…».
Il Covid, e in particolare il primo lockdown, hanno cambiato un po’ anche la vita del convento, che in tempi normali ospita viaggiatori e pellegrini e organizza varie attività, dal doposcuola al cineforum. «Però», aggiunge subito Fra Edy, «anche nei momenti peggiori non c’è mai stato il deserto. Quando non si poteva dir Messa incontravamo la gente che ci salutava dalle finestre, ci fermavamo in mezzo alla piazza a parlare con questo e con quello. Le dirò, per certi versi il numero di persone che ha instaurato un contatto con noi – non necessariamente religioso, ma quantomeno in cerca di ascolto – è aumentato. Forse ci si è accorti un po’ di più di quanto conta il prossimo, di quanto sia importante il tempo che ci dedichiamo a vicenda. Ne ha beneficiato l’ascolto, che insieme all’attività liturgica è poi un po’ il lavoro di noi religiosi, per così dire», commenta il Cappuccino liberando una risata benevola.
Fra Edy, insomma, non indulge in una lettura apocalittica o moralistica del biennio pandemico, di quelle che regalerebbero un bel titolone e poca sostanza. A sentir lui alcune cose sono andate meglio del previsto, altre no, ma così è la vita: «Lo si è visto anche nelle relazioni interne alle famiglie. Al primo lockdown feci una battutaccia, dissi che avremmo dovuto ordinare un bel po’ di candele per i battesimi in arrivo. Un mio confratello, meno ottimista, disse che semmai si sarebbe dovuta ordinare una scatola di avvocati… Magari avevamo ragione entrambi: i litigi ci sono stati, ma la scatola di candele mi è comunque tornata utile».
A colpire il frate è stata in particolare l’intensità delle emozioni durante i primi mesi di pandemia, quando non si capiva bene cosa stesse succedendo e «la solidarietà si manifestò con tanta forza, quando ad esempio si trattava di aiutare gli anziani con la spesa o altro. Poi, col passare del tempo, è subentrata la stanchezza per una condizione che sembrava non avere fine». Sempre a proposito di anziani, «sono stati probabilmente tra coloro che hanno fatto più fatica ad accettare la situazione e le restrizioni. Quelli che dicevano ‘ma tanto io il Covid non lo prendo mica’, oppure ‘ormai ho ottant’anni, se vado al Creatore pazienza’, o ancora – mosche bianche, per fortuna – quelli che quando non mettevamo l’acqua santa si arrabbiavano perché ‘ma tanto è benedetta’…»
Poi ‘al Creatore’ qualcuno ci è andato davvero, e in quel caso «la cosa più dura è stata l’elaborazione del lutto. Le salme venivano portate via all’istante, non c’era tempo né modo per quelle funzioni e quei riti – anche laici – che aiutano i famigliari nel momento del distacco. Spesso abbiamo ‘replicato’ le occasioni di commiato, organizzando in un secondo momento la deposizione delle ceneri o un semplice momento di commemorazione dei defunti, una volta che la situazione sanitaria era meno grave».
In fin dei conti, riflette Fra Edy, «il senso improvviso di enorme fragilità ha tirato fuori dalle persone il loro meglio e allo stesso tempo il loro peggio. Da una parte la solidarietà, lo spirito di adattamento, l’empatia. Dall’altra certe reazioni rabbiose, aggressive, saccenti. Specie in quest’ultimo periodo in cui siamo tutti stanchi e anche le famiglie e gli amici si trovano divisi tra Pro Vax e No Vax, con troppi che credono di essere informati e cedono alla tentazione di credersi medici, senza possibilità di un dialogo, di un confronto». Di quello, insomma, che «noi religiosi impariamo assistendo i malati: ciò che serve, delle volte, è solo sedersi e ascoltare».
Il 25 febbraio del 2020 arrivava la notizia del primo contagio in Svizzera, proprio in Ticino. Questa è la quarta puntata di una serie dedicata a categorie di persone spesso lontane dai media e al loro destino dopo due anni di pandemia. Le altre sono qui