San Giovanni di Bellinzona, senza esito le verifiche avviate sulla segnalazione di ex infermiere malate che preparavano antitumorali a mani nude
In comune hanno tante cose: negli anni 80 e 90 hanno lavorato gomito a gomito nel reparto di chirurgia-uomini dell’ospedale San Giovanni di Bellinzona confezionando e somministrando farmaci antitumorali, inizialmente a mani nude e senza protezioni, introdotte poi gradualmente. Inoltre disinfettavano locali e superfici col Buraton contenente formaldeide, sostanza cancerogena sopra certe dosi. Successivamente hanno contratto varie forme di cancro e malattie autoimmuni. Quindi nella primavera 2019 – coalizzatesi in cerca di risposte scientifiche – hanno sollecitato l’Ente ospedaliero cantonale affinché verificasse l’esistenza di possibili connessioni fra l’esposizione professionale a sostanze nocive e i problemi di salute insorti. Ora masticano amaro. Perché dopo tre anni di lettere, valutazioni giuridiche e verifiche preliminari di ordine tecnico e medico, l’Eoc ha comunicato loro di non voler eseguire l’approfondimento da affidare a uno specialista indipendente in tossicologia clinica riconosciuto a livello nazionale e scelto di comune accordo dalle parti. L’accordo raggiunto un anno fa indicava la possibilità di ordinare una ‘perizia in contraddittorio’ nella quale sia l’Eoc, che l’avrebbe finanziata, sia le ex infermiere avrebbero potuto formulare delle domande. Ma lo specialista individuato ha scritto all’Eoc dichiarandosi non disposto ad approfondire. Caso chiuso?
Dopo l’inchiesta giornalistica pubblicata da ‘il Caffè’ a inizio 2021 portando alla luce il caso, il gruppo iniziale di cinque infermiere affette da malattie autoimmuni e tumori era salito a sette. Sette in un’équipe di 10-12 persone. Nel frattempo due sono morte di cancro. Un terzo decesso risale allo scorso novembre: una pensionata già capo reparto chirurgia, che ha però preferito non aggregarsi alle sette ex colleghe nella ricerca di una verità plausibile. Contattata in settembre dalla ‘Regione’, aveva risposto che "secondo la mia opinione molto personale, non c’è nessuna correlazione". È la stessa conclusione cui era giunto quattro mesi prima il medico romando Thierry Buclin, quello appunto indicato da Eoc per l’esecuzione della perizia in contraddittorio, perito accettato dal gruppo di ex collaboratrici pur avendo loro proposto altri dieci nomi di specialisti elvetici come previsto nelle trattative bilaterali. Poi, come detto, il capo del Servizio di farmacologia clinica dell’Ospedale universitario di Losanna ha scritto di non voler approfondire alcunché. Lo ha comunicato all’Eoc a tempo di record l’11 maggio 2022, il giorno dopo essere stato contattato. Due pagine fitte-fitte ritenute dai vertici dell’Ente ospedaliero un’opinione inappellabile. Questo succedeva nove mesi fa; nell’estate e autunno 2022 sono seguiti altri scambi fra Eoc e l’avvocato Luca Allidi che in corso d’opera si è affiancato all’avvocato Loris Bianchi quale rappresentante legale – in entrambi i casi ‘pro bono’ – delle donne malate. Le quali, di nuovo, desiderano oggi sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica, della politica e del mondo scientifico. «Lo facciamo affinché la nostra sete di verità – spiega Maria, il vero nome è noto alla redazione – non s’infranga contro il parere affrettato di chi si è basato sui rilievi preliminari sottopostigli dall’Eoc e sulle proprie conoscenze per concludere di non voler dedicare al tema le risorse e il tempo necessari, ammettendo peraltro che di tempo, per andare a fondo della questione, ce ne vorrebbe parecchio. Infatti quanto prodotto da Buclin non è la perizia concordata con l’Eoc. Semmai un’affrettata consulenza. Chiediamo che ci sia un’indagine approfondita, dettagliata, indipendente. Che il nostro racconto e le sofferenze siano un punto di partenza, non di arrivo. Siamo a completa disposizione».
Maria è un fiume in piena quando riapre il libro dei ricordi e snocciola il nome delle malattie autoimmuni contro cui lotta da anni. Lupus, miosite, Sjögren, artralgia, polineuropatia, fibromi. Ribadisce che «negli anni 80 e 90 preparavamo nel reparto di chirurgia i farmaci antitumorali per una media di tre/cinque pazienti al mese. Ciascuno necessitava di cinque trattamenti. Lo ripeto, anche noi ci occupavamo di pazienti col cancro, non solo il reparto oncologico. Inizialmente a mani nude, senza mascherine, grembiuli, cappe di aspirazione, niente. Queste sono arrivate dopo. Quando si è preso coscienza del problema a livello generale, il Buraton è stato eliminato e dal 2004 la preparazione dei citostatici è stata trasferita in laboratorio». Maria ricorda inoltre con molto affetto l’allora capo reparto deceduta lo scorso novembre: «Era una collega straordinaria, sempre pronta ad aiutarci. Anche lei, come noi, preparava i citostatici senza protezioni e poi mi mostrava le dita dicendo "Guarda Maria come sono bianche". Pensandoci oggi, tutto indicava la presenza del morbo di Raynaud, che fra le possibili cause ha appunto il contatto con agenti chemioterapici».
Quanto alle verifiche e approfondimenti finora eseguiti da Eoc, aggiunge Maria, «un esperto di fama mondiale mi ha consigliato di rivolgerci a un farmacologo clinico, come in effetti lo è il dottor Buclin, ma che sia anche patologo e genetista. Perché tiriamo in campo il Dna? Uno studio eseguito nel 1994 dall’Università tedesca Gutenberg di Magonza sulle malattie professionali del personale curante ha coinvolto un campione di 91 infermiere. Ebbene, lo studio ha evidenziato la potenziale pericolosità degli agenti antitumorali, infusioni che servono sì a curare, ma che sono anche in grado di incidere sul Dna se manipolate senza protezioni. Ed è sufficiente un solo episodio. Ecco perché riteniamo che occorra coinvolgere un genetista. Se si considera che mio figlio ha seri problemi di salute e che il figlio di una collega ammalatasi è nel frattempo morto, il nostro Dna può fornire molte risposte utili».
Dal carteggio che inizia a metà 2019 e termina a metà 2022 emerge il fil rouge lungo il quale si muove l’Eoc, non sempre in modo lineare. Si parte dalla negazione iniziale riguardo alla manipolazione in reparto degli antitumorali, poi parzialmente ritrattata di fronte alle testimonianze delle infermiere stesse e di altri colleghi. Segue la negazione di Eoc di evidenze scientifiche teoriche di possibili effetti causali delle sostanze sul personale infermieristico, contraddetta dall’introduzione graduale negli anni 90 di precauzioni nella manipolazione dei citofarmaci. Emerge anche l’invocazione della prescrizione giuridica per fatti antecedenti il 2000: un tentativo di ritenere inutile l’approfondimento, seguito da un dietrofront con la rinuncia alla prescrizione, sfociata nell’accettazione della perizia in contraddittorio con la partecipazione delle ex infermiere e non unilaterale. Per finire con l’Eoc che dichiara chiuso il caso in base al rifiuto del dottor Buclin.
Nel dettaglio, bisogna tornare al 14 febbraio 2020 quando il direttore dell’Ospedale San Giovanni, Alessandro Bressan, esprimendo "rincrescimento e umana vicinanza" consegna all’avvocato Loris Bianchi l’esito della prima verifica eseguita internamente. Da una parte l’accertamento medico sulla situazione clinica delle pensionate fatto dal dottor Carlo Balmelli, responsabile del Servizio di prevenzione delle infezioni e medicina del personale Eoc. Dall’altra la valutazione tossicologica clinica – dottor Alessandro Ceschi, specialista per l’Eoc in farmacologia e tossicologia clinica – su un’eventuale correlazione causale tra le patologie emerse e l’esposizione a chemioterapici e Buraton. Esito: da letteratura, portali specializzati, banche dati, fornitori prodotti e Centro nazionale antiveleni emerge che "le evidenze scientifiche attualmente disponibili non permettono di definire nessi di causalità diretti conclusivi"; questo considerando peraltro le patologie oncologiche delle ex infermiere, "che sono relativamente frequenti soprattutto in una popolazione non giovane".
Nell’estate 2020 la vertenza fa piccoli passi avanti e si definiscono ancora meglio i fronti: da una parte le ex infermiere e altri ex collaboratori ribadiscono quanto vanno ripetendo da mesi; dall’altra la Direzione ospedaliera, raccolte a sua volta alcune testimonianze, scrive che la preparazione "non avveniva nei reparti, bensì nell’ambulatorio di oncologia con gli adeguati mezzi di protezione in uso all’epoca; successivamente tale attività è stata centralizzata nella farmacia del nosocomio; i citostatici così preparati venivano portati nei diversi reparti, dove avveniva la somministrazione". Passano altri mesi e in una lettera del 10 luglio 2020 la Direzione riconferma le iniziali conclusioni specificando che non vi è nessun nesso causale fra sostanze maneggiate (qualora lo siano state veramente) e patologie. Unica apertura: "Non è possibile escludere che l’esposizione a formaldeide possa aumentare il rischio di tumore polmonare (...) sebbene una recente revisione della letteratura non ha evidenziato un significativo incremento del rischio in lavoratori esposti in modo prolungato".
Il 25 agosto 2020 il legale delle ex infermiere scrive al direttore Bressan allegando le dichiarazioni di altri tre ex collaboratori del reparto di chirurgia (fra cui un medico) che negano l’esistenza di dispositivi di protezione negli anni considerati. Inoltre, aggiunge l’avvocato Bianchi, il fatto che man mano siano state introdotte misure di protezione "indica che progressivamente l’ospedale si è reso conto della pericolosità delle sostanze sino al punto di trasferire il tutto nel laboratorio". I toni si alzano poi sul rifiuto della Direzione a voler rinunciare alla prescrizione, ciò che viene ritenuto "inconcepibile" dalle ex collaboratrici che tramite il loro avvocato segnalano così la fattispecie al Consiglio di amministrazione dell’Eoc lamentando l’atteggiamento della Direzione ospedaliera, che "rifiuta di considerare l’insieme di circostanze determinanti (ndr: le dichiarazioni di chi lavorava in reparto) per la ricostruzione della possibile catena causale". Pure segnalata la sorpresa, sempre a fronte del diniego in materia di prescrizione, sul fatto che la Direzione "usi simili grossolane strategie di dissuasione nei confronti di ex collaboratrici gravemente malate e prive di mezzi finanziari adeguati, anziché investirsi di un’aperta, spontanea e costruttiva collaborazione nell’accertare i fatti".
Coinvolto ufficialmente nella diatriba, il presidente dell’Eoc Paolo Sanvido cerca di abbassare la tensione con parole rassicuranti. L’8 marzo 2021 scrivendo al legale premette che "la salute e il benessere del nostro personale presente e passato, che ogni giorno con dedizione si prende cura dei nostri pazienti, oltre a essere un dovere è una priorità e ci sta veramente a cuore". Annunciando "ulteriori accertamenti" assicura quindi di non voler chiudere prematuramente la vicenda senza aver verificato, avvalendosi "di tutta la professionalità richiesta e dovuta", che non ci sia stata violazione di obblighi di tutela dei lavoratori e l’esistenza di un nesso causale.
Quattro giorni dopo, il 12 marzo 2021, arriva la valutazione eseguita su mandato Eoc da Gerd-Achim Kullak-Ublick, direttore della Clinica di farmacologia e tossicologia all’Ospedale universitario di Zurigo. Che giunge alla stessa conclusione dell’Eoc: le malattie delle ex infermiere "non sono in alcun modo indicative dell’esposizione professionale a una sostanza nociva. Ed è improbabile che si verifichino se i medicinali sono maneggiati correttamente e si operi in modo appropriato". Importante il passaggio relativo alla corretta manipolazione degli antitumorali. Seguono altri scambi e l’Eoc il 24 giugno 2021, accogliendo una richiesta delle ex infermiere, rinuncia alla prescrizione a tempo indeterminato. Un passo avanti compiuto per "favorire una discussione amichevole fra le parti – scrive il presidente Sanvido – tesa a una risoluzione bonale in tempi brevi. La rinuncia non rappresenta comunque alcun riconoscimento di responsabilità da parte nostra". Da notare che un’eventuale pretesa di risarcimento per i danni alla salute subiti a seguito dell’esposizione a sostanze nocive si prescrive, per casi simili, al più tardi 20 anni dopo l’ultima esposizione senza le necessarie misure di protezione. In una ‘nota riassuntiva’ di quattro pagine, l’Eoc ribadisce: nessun nesso causale. Pure evidenziato che essendo le malattie tutte diverse fra loro, "non è possibile delineare un gruppo di due o più casi di una stessa patologia verificatasi nello stesso luogo e nel medesimo periodo temporale".
Inoltre da testimonianze raccolte dall’Eoc presso "diversi collaboratori presenti all’epoca", emerge che "vigeva la regola secondo cui le chemioterapie venissero preparate negli ambulatori del servizio oncologico e non nel reparto di chirurgia, sebbene sia plausibile che ciò avvenisse saltuariamente", ossia "tre/cinque preparazioni al mese". Per contro, ricordiamo, le ex infermiere parlano di tre/cinque pazienti al mese e di cinque infusioni ciascuno. Ma Eoc tira dritto: "La conoscenza dei potenziali rischi nella manipolazione dei citostatici era adeguata e considerata pionieristica a livello svizzero". Tanto che – evidenzia ancora la nota riassuntiva – la Suva "ha emesso dal 1990 le prime raccomandazioni, anche sulla base del lavoro svolto in Eoc". Le misure di protezione "sono state gradualmente adattate in base alle maggiori conoscenze ed esperienze maturate". E ancora: "Eoc e Ospedale San Giovanni hanno sempre supportato l’introduzione di dispositivi di protezione individuali adeguati e hanno mantenuto una buona sensibilità da parte del personale oncologico ma non solo". Infine "non c’è un tasso d’incidenza maggiore di tumori nel personale che manipola antitumorali rispetto al resto della popolazione".
Ma alle ex infermiere non va giù la nota riassuntiva prodotta dall’Eoc il 24 giugno 2021. E reagiscono. A Loris Bianchi si affianca l’avvocato Luca Allidi. Il quale scrivendo il 10 gennaio 2022 all’Ente ospedaliero evidenzia che il professor Kullak-Ublick nega sì l’esistenza di un nesso causale, "a condizione però che si operi in modo corretto e appropriato. E non sempre – annota Allidi – si è operato e agito correttamente" visto che lo stesso Eoc ha riconosciuto che "per almeno tre/cinque pazienti al mese, ognuno per un ciclo terapeutico che durava di regola cinque giorni, i medicamenti oncologici venivano preparati nel reparto di chirurgia senza protezioni, anziché nell’apposito laboratorio di oncologia". Sempre Allidi interpella un esperto attivo per una società di San Gallo che si occupa di perizie nell’ambito della medicina del lavoro, il quale letto il dossier suggerisce di sollecitare un approfondimento peritale. E meglio, una perizia in contraddittorio con la facoltà per le due parti di formulare domande.
Il 28 gennaio 2022 Eoc, pur ribadendo la propria convinzione che quanto fino ad allora già appurato sia sufficiente a escludere il nesso causale, si dichiara disposto a finanziare una perizia in contraddittorio "nell’ottica di favorire una soluzione amichevole". Questo a condizione che il perito "prescelto di concerto tra le parti sia un esperto in tossicologia clinica facente capo a un istituto di tossicologia delle università di Berna, Basilea o Losanna". Esclusa dunque Zurigo, ma senza motivo.
Si arriva alla scorsa primavera, quando le parti optano per il dottor Buclin. Il quale, allineandosi alle precedenti conclusioni di Eoc e di Kullak-Ublick, rifiuta l’incarico. A suo dire le ex infermiere costituiscono un gruppo troppo limitato di persone, affette da malattie eterogenee e relativamente frequenti, per rappresentare un campione affidabile sul quale indagare; sono inoltre state esposte a dosi deboli di citofarmaci rispetto a quelle somministrate ai pazienti da curare, questo anche considerando le misure di protezione, applicate negli anni 80 e 90, meno rigorose delle attuali. Buclin ritiene poi che ci vorrebbe troppo tempo per confrontare, a posteriori, le dosi cui sono state sottoposte negli anni, la letteratura sulla tossicità dei prodotti e le rilevanze cliniche delle loro malattie per giungere a un’eventuale conclusione solida a tal punto da dimostrare un nesso causale. Casistica nota e letteratura sulle malattie auto-immuni inducono inoltre Buclin a dire che "sarebbe difficilmente concepibile attribuire un nesso causale in presenza di deboli esposizioni ai farmaci, visto che nemmeno le dosi massicce hanno effetti collaterali riconosciuti". Per tutti questi motivi, taglia corto, "non intendo riservare alla questione più tempo di quello che ho già dedicato". Sì e no qualche ora. E "credo che nessun altro esperto riuscirebbe a fare diversamente".
Una conclusione che secondo il presidente di Eoc "non lascia alcun margine interpretativo". È il 25 maggio 2022 e Sanvido scrive ad Allidi sostenendo che "insistere nel percorrere una via diversa sarebbe a questo punto irragionevole e incompatibile con una gestione oculata delle risorse pubbliche". Eoc chiude dunque ogni ulteriore possibilità di "superfluo e inutilmente esoso" approfondimento. Ma anche qui, alcuni puntini sulle ‘i’ posti dall’avvocato Allidi in una lettera del 13 giugno 2022 permettono di scoprire che Eoc nei mesi precedenti aveva chiesto al legale delle ex infermiere di indicare il nominativo di un perito. Ben dieci quelli sottoposti a Eoc, di cui sette associati a istituti universitari svizzeri, come previsto nell’accordo del gennaio 2022. Fra cui il professor Michael Arand (Uni Zurigo) considerato fra i migliori tossicologi svizzeri. Eoc ha però proposto Buclin ritenendo che meglio rispondesse ai criteri condivisi. Per quale motivo, non è dato sapere.
Proposta comunque accolta dalle ex infermiere. Cui alla fine, scrive Allidi, non sono piaciute le conclusioni cui Buclin è giunto rifiutando il mandato "senza un minimo approfondimento ma sostenendo che una perizia richiederebbe molto tempo". Il fatto che Eoc condivida questo agire, scrive l’avvocato, significa "rimangiarvi la parola data", ciò che è "incomprensibile e irrispettoso nei confronti delle vostre ex collaboratrici". Inoltre "sconfessa in modo sorprendente e inatteso il vostro atteggiamento di apertura, disponibilità e sensibilità sin qui dimostrato". Da qui la richiesta – era il 13 giugno 2022 – di consentire all’avvocato Allidi di contattare almeno uno dei dieci periti indicati per sondare la disponibilità ad assumere il mandato.
La risposta di Eoc (firmata il 24 giugno 2022 dal presidente Sanvido e dal direttore Glauco Martinetti) chiude l’ultimo spiraglio rimasto indicando che lo stesso Ente ospedaliero, come concordato dalle parti, aveva a sua volta ricercato un esperto, individuato appunto nel professor Buclin dopo aver valutato i dieci nominativi proposti dall’avvocato Allidi. Buclin il cui scritto "non presta il fianco a interpretazioni di sorta e giustifica, al di là di ogni ragionevole dubbio, la nostra posizione". Respingendo la tesi di essersi rimangiato la parola, Eoc conclude di disporre di sufficienti elementi a propria tutela per imporre "l’unica scelta possibile". Chiudere il caso in modo inappellabile.