Il bilancio dei cinque giorni di porte aperte al Seghezzone è ‘positivo’. Nadia Bizzini: ‘Ora la popolazione conosce un po’ meglio i nomadi svizzeri’
«Chiediamo semplicemente di lasciarci vivere secondo la nostra cultura e il nostro modo di viaggiare». Albert Barras, presidente dell’associazione J.M.S. (Jenisch, Manouches e Sinti svizzeri), ricorda che «la Costituzione garantisce a ogni cittadino il diritto di vivere nella Confederazione secondo i suoi usi e costumi». Un diritto che però in alcuni casi non viene percepito come tale, visto che «certi Comuni non accettano nomadi». Al Seghezzone di Giubiasco l’area di sosta per nomadi svizzeri è invece molto apprezzata, anche se «sarebbe meglio averne una permanente: avremmo così a disposizione, oltre all’acqua, anche elettricità e la possibilità di smaltire le acque luride. Inoltre, potremmo fermarci anche d’inverno [attualmente l’area è agibile da marzo a ottobre, ndr]», quando solitamente gli jenisch si fermano più a lungo in un posto. E uno degli aspetti emersi durante i cinque giorni di porte aperte è proprio la volontà delle autorità (Cantone, Città di Bellinzona e Ufficio federale della cultura) di collaborare per realizzare un’area di sosta permanente», sottolinea Nadia Bizzini, collaboratrice esterna del Dipartimento delle istituzioni sulla tematica ‘nomadi’. Porte aperte che hanno inoltre permesso alla popolazione di conoscere meglio questi concittadini riconosciuti dalla Confederazione come una minoranza nazionale.
Il bilancio di questi cinque giorni (terminati oggi) è dunque «positivo». Oltre alla questione puramente logistica – ricordiamo che le opzioni sul tavolo sono due: o sviluppare il Seghezzone, dove però il Cantone sembrerebbe voler realizzare due nuove scuole, o spostarsi su un terreno nelle vicinanze lungo l’autostrada – è anche emerso un certo interesse da parte della popolazione nei confronti di jenisch, manouches e sinti. «Oltre a partecipare ai diversi eventi proposti, alcune persone si sono anche fermate spontaneamente durante il giorno o alla sera semplicemente per fare una chiacchierata, scambiarsi opinione o porre domande», spiega Bizzini. Uno degli obiettivi di queste porte aperte era proprio quello di permettere alla popolazione di conoscere meglio i nomadi svizzeri. Obiettivo che è quindi in parte stato raggiunto, pure «grazie ai media che sono riusciti a sensibilizzare su questa tematica anche chi non si è recato sul posto». E tutto ciò provoca anche «un passaparola positivo (e non negativo come spesso accade) riguardo alla cultura jenisch». Un’esperienza quindi da rifare? «Visto l’esito positivo, non si può escludere l’organizzazione in futuro di un’altra manifestazione simile che coinvolga però anche altre realtà culturali presenti sul territorio».
Fra i numerosi eventi organizzati durante i cinque giorni di porte aperte, venerdì scorso si è anche tenuta una presentazione sul tema ‘nomadismo’ da parte della professoressa di antropologia culturale all’Università di Verona Stefania Pontrandolfo, che ha in particolare fatto notare come oggigiorno vi siano tipi di mobilità accettate, mentre altre vengono represse. E ciò non riguarda solo le popolazioni nomadi, ma, ad esempio, pure i migranti. «È lo Stato che definisce quale mobilità è accettabile», ha affermato. «La mobilità di lavoratori ricchi non è vista come un problema, mentre quella delle persone povere (che si spostano per sopravvivere) dà spesso fastidio».
Stando a Pontrandolfo, questa ideologie è nata con «l’affermazione degli Stati nazionali» che hanno privilegiato «una cultura omogenea e sedentaria» in un territorio ben preciso, delimitato dai confini. E questo a causa di «un’ossessione relativa al controllo dei cittadini». Sono così state generate burocrazie o regole «che hanno come unica finalità quella di sapere dove si trovano le persone, come la carta di identità o il passaporto. Burocrazie che per le persone sedentarie sono molto utili, perché aiutano a vivere una vita più semplice. Ma per migranti o nomadi hanno portato a meccanismi di esclusione, ovvero regole che stabiliscono chi può accedere a determinati servizi e chi no».
Nomadi che in realtà hanno sempre svolto «attività economiche utilissime», ha sottolineato Pontrandolfo. «In passato il cestaio, il venditore di cavalli o il fabbro ferraio erano mestieri vitali per l’economia agricola. Con l’industrializzazione queste professioni sono diventate di nicchia», ma non meno utili. Anzi, in certi casi dovrebbero essere valorizzate: ad esempio il recupero e riciclo dei metalli o la restaurazione e il commercio di oggetti di antiquariato sono «attività ecologicamente importanti che però vengono svalorizzate». Svolgono poi anche attività artistiche (musica, teatro) e ludiche (giostre, circo). «Attività che fanno bene a tutti: a loro perché così riescono a sopravvivere e alla popolazione che può beneficiare dei loro servizi».
Insomma, i nomadi sembrerebbero ancora essere discriminati, non tanto per quello che fanno, ma a causa dei pregiudizi che si sono instaurati nella mentalità comune con il passare del tempo. E la loro unica colpa sembra essere quella di voler viaggiare e non rimanere sedentari in un luogo preciso. E spostarsi per loro è vitale: «Non posso vivere senza viaggiare: non mi sentirei libero, ma come in prigione», conclude Barras.