Viaggio cicloturistico alla scoperta dei due fondovalle segnati da destini opposti: se la Ferrovia del Gottardo fosse passata sotto il Lucomagno...
Cosa avrebbe potuto essere – o cos’ha rischiato di essere, a dipendenza di come la si veda – la Valle di Blenio qualora la Confederazione, i Paesi alpini limitrofi e il ‘re delle ferrovie’ Alfred Escher nella seconda metà dell’800 avessero inserito lo strategico tracciato ferroviario nord-sud sotto il Lucomagno anziché sotto il Gottardo? La domanda va ovviamente posta anche a specchio: cosa sarebbe stata la Leventina senza ferrovia? Qualora i treni a lunga percorrenza avessero sferragliato lungo la Valle del Sole (la ferrovia regionale Biasca-Acquarossa attiva dal 1911 al ’73 era riservata al traffico locale) molte cose sarebbero andate come in effetti sono andate, ma con destini opposti.
Quasi certamente la Media Leventina non avrebbe vissuto il turismo della ‘belle époque’ e gli alberghi e le ville in stile Liberty di Faido sarebbero sorti ad Acquarossa, dando un senso compiuto alle acque termali oggi in stato di abbandono. Con i loro mazzi di binari la Monteforno e le altre fabbriche non si sarebbero insediate nel fondovalle di Bodio e Giornico ma avrebbero occupato la più capiente piana di Malvaglia, con gli abitanti collinari di Semione e Ludiano costretti a respirarne i fumi. Le fortezze militari costruite fra Airolo e Biasca per mettere in sicurezza la linea ferroviaria dagli attacchi armati durante i due conflitti mondiali sarebbero sorte nella ridente vallata parallela e l’Esercito si sarebbe più facilmente accasato con le proprie grandi caserme a Olivone (per la felicità dei suoi bar e ristoranti) anziché soltanto nell’Alta Leventina. E ancora: le Ffs durante la prima guerra mondiale, intuendo la necessità di sostituire il carbone con l’elettricità, dove avrebbero costruito la diga e la centrale idroelettrica del Ritom che da un secolo fornisce la corrente di trazione per la linea ferroviaria del Gottardo?
Di sicuro, lo sviluppo economico di cui hanno beneficiato per decenni lunghi tratti del fondovalle leventinese, non avrebbe lasciato le ferite oggi così evidenti nel cuore di villaggi semiabbandonati e per sempre segnati dal tipico odore e colore ferruginoso della strada ferrata: per citarne due su tutti, Lavorgo non sarebbe il paese di Lavorgo che conosciamo senza la sua rinnovata stazione (un contentino?) e Giornico, che paradossalmente non ha mai avuto una stazione, non sarebbe la ben nota Giornico senza la vasta zona produttiva e quella che sta per diventare l’area di controllo dei Tir. E nemmeno la strada cantonale che risale la valle fino al Gottardo, il cui tracciato è datato inizio ’800, avrebbe il fin troppo generoso calibro odierno datole quando l’autostrada era ancora solo uno schizzo per addetti ai lavori e le vetture iniziavano a moltiplicarsi fra la popolazione assetata di evasione. A proposito: l’autostrada sarebbe in effetti transitata, col suo lunghissimo tunnel, sotto il Gottardo se prima non ci fosse passata la Gotthardbahn? Molto probabilmente sì, vista l’importanza assunta dalla Via delle Genti a sud e a nord quando a inizio ’700 le prime brevi gallerie realizzate in territorio urano resero più sicuro il transito dei carri e somieri incentivando così il trasporto delle merci prima di allora molto più florido lungo i passi del Lucomagno e del San Bernardino. Peraltro, se non ci fosse stata prima la ferrovia c’è da chiedersi se i monumentali viadotti autostradali sarebbero sorti lì dove si trovano da quarant’anni, grazie alle proteste di Faido che non volle che l’A2 lambisse il villaggio dopo aver già subìto la cesura ferroviaria dapprima portatrice di turisti e prosperità, poi di treni merci e a lunga percorrenza portatori di nessun beneficio locale.
Cosa sono oggi i due fondovalle, così vicini e così diversi fra loro, lo si può vedere percorrendoli... sulle due ruote, e a varie altitudini, con la velocità e lo sguardo del cicloturista. Un’esperienza che corrobora una convinzione: l’eredità lasciata dalla ferrovia è più pesante di quanto ci s’immagini. Si parte da Biasca, perno dell’Alto Ticino, per risalire la Valle di Blenio lungo la sponda destra del fiume Brenno. Dal castello di Serravalle lo sguardo gettato sulla piana verdeggiante mostra un mondo all’opposto di quello che dall’altra parte del Matro, a una manciata di chilometri in linea d’aria più a ovest, è stato dal secondo dopoguerra e per mezzo secolo uno dei maggiori centri siderurgici della Svizzera. Superati Ludiano e Dongio, a Corzoneso ci si arrampica in direzione di Leontica e quindi, tornante dopo tornante, fino alle pendici della stazione sciistica del Nara (quota 1’550) dove d’estate dominano ampi pascoli fioriti fra nuclei di rustici in buona parte rinnovati. Da Pianezza si rimane in quota andando a imboccare la strada del Lucomagno per poi fiondarsi su Olivone e riprendere la cantonale verso sud. Unica testimone bleniese di una realtà industriale dei tempi che furono è l’imponente stabile dell’ex fabbrica di cioccolato Cima Norma che nel 1920 dava lavoro a 500 persone, per poi chiudere i battenti nel 1968 lasciando i bleniesi con l’amaro in bocca (né più né meno di quanto è accaduto nel 1994 con la leventinese Monteforno in base a logiche decise Oltralpe). Più sotto, all’imbocco della Valle di Blenio, fanno a pugni due realtà contrapposte: a destra la zona golenale protetta della Legiuna, a sinistra l’elefantiaco deposito del materiale di scavo del tunnel di AlpTransit, diventato una montagna artificiale che non era umanamente accettabile destinare alla già molto tartassata bassa Leventina.
Da Biasca si risale verso nord, direzione Faido: subito l’infrastruttura stradale, autostradale e ferroviaria prende il sopravvento. Il primo impatto è con l'ultima arrivata, la mastodontica centrale di gestione del traffico ferroviario lungo l'asse di AlpTransit, realizzata dalle Ffs a Pollegio: un concentrato di tecnologia dalla forma sgraziata (molto simile a un gigantesco bidet) che è lecito chiedersi se non sarebbe stato meno invasivo inserire nella montagna, considerati i molti buchi che ha, peraltro inutilizzati. Più su, taluni abitati affacciati sulla cantonale mostrano un elevato grado di abbandono: e pensare che quelle abitazioni, via via dimenticate dalla gente del posto che ha trovato altrove terreni vergini su cui edificare nuove case, hanno poi accolto almeno due generazioni di forza lavoro metallurgica estera integratasi molto bene nella realtà locale di cui è stata, e lo è tutt’oggi, una solida presenza comunitaria. Nel frattempo l’industria ha cambiato volto e offre attualmente 500 preziosi posti di lavoro. L’infrastruttura modernizzatasi si presenta abbastanza bene, sebbene una fabbrica – all’origine di continue contestazioni fra i bodiesi – continui a sbuffare dal tetto vapori grigi solo parzialmente abbattuti dai nebulizzatori. Il viaggio prosegue verso i primi dislivelli e dopo Giornico, superati i suoi due ponti romani, le sette chiese e i caratteristici vigneti a pergola presenti fino ai 700 metri di quota, si risale la Leventina all’ombra dei viadotti: scorrono un po’ sottotono Lavorgo, Chiggiogna e a nord di Faido la frazione di Polmengo. Qui le infrastrutture superficiali di AlpTransit sono un pugno nell'occhio. Quindi ai piedi della Gola del Piottino si svolta per Osco: la storia si fa seria e i chilometri iniziano a farsi sentire nelle gambe (saranno infine 130). Gli 800 metri di dislivello con pendenze fra il 10 e il 14% che portano ai 1'650 metri di Carì diventano un rosario. Ma lo sforzo è ricompensato dal profumo di larici secolari e da un paesaggio prealpino che si regge ancora sul settore primario e sul turismo di giornata che ha strizzato l’occhio alla residenza secondaria (vistosamente fin troppo di qualità).
Carì in Leventina e Nara in Val di Blenio: qualcuno un tempo immaginò di collegare i due comprensori sciistici con un impianto a fune, ma non se ne fece nulla. Oggi l’antico tragitto che le attraversa partendo da Prugiasco e giungendo ad Airolo è iscritto nel catalogo delle vie storiche d’importanza nazionale. Infatti la Bassa di Nara per secoli è stato il passo lungo il quale le due comunità vallerane stringevano accordi commerciali sull’asse est-ovest e non di rado finivano anche per trovar moglie e prosperità oltre la Greina, nei Grigioni. Più in basso, dove il fondovalle è diventato un datore di lavoro e una fabbrica di opportunità dalle fortune alterne, appena si scorgono rumoreggiare la ferrovia, l’autostrada e i lunghi tetti dell’industria che hanno indelebilmente segnato, per presenza e improvvisa assenza, i destini socio-economici e paesaggistici dei due distretti e delle loro genti.