Mezzo secolo fa il tardivo riconoscimento della piena cittadinanza alle donne. Uno sguardo all’indietro e uno sul presente.
Eleggere, essere eletti, votare: il diritto di cittadinanza attiva sembra oggi una cosa scontata. Ma soltanto pochi decenni fa in Svizzera era appannaggio degli uomini, ostaggio di una mentalità patriarcale pervasiva, dura a morire. Nella seconda democrazia più vecchia del mondo dopo gli Stati Uniti (se ‘democrazia’ si poteva chiamare un Paese che escludeva la metà della sua popolazione dalla vita politica), le donne si sono viste riconoscere i pieni diritti politici 53 anni dopo le cittadine germaniche, 33 anni dopo le inglesi, 25 anni dopo le italiane, altrettanti dopo le cittadine di… Gibuti.
È il 7 febbraio del 1971: il 65,7% dei maschi che si recano alle urne dice ‘sì’ all’estensione alle donne del diritto di voto e di eleggibilità sul piano federale. L’‘ordine divino’ va in frantumi. Crolla un muro istituzionale che già era stato incrinato dalla concessione alle donne – in nove cantoni, soprattutto romandi – del diritto di votare e di candidarsi alle elezioni cantonali e comunali, ma che prima di allora aveva retto a più d’una picconata e che bene o male resisterà ancora per un paio di decenni, fino a quando il Tribunale federale ne spazzerà via l’ultima reliquia.
Sono passati 50 anni da quello storico evento. Ne sono passati 25 dall’entrata in vigore della legge sulla parità dei sessi, 16 dall’introduzione del congedo maternità. Ma il cammino verso l’uguaglianza effettiva, in Svizzera, resta lungo e impervio. In svariati ambiti. Quello salariale, ad esempio. Le donne guadagnano in media quasi 1’500 franchi al mese in meno degli uomini: una buona metà della differenza si spiega con criteri oggettivi, il resto non è altro che discriminazione. Con buona pace del principio della parità salariale, iscritto nella Costituzione federale dal 1981. Per non parlare di altre disparità, di altri ritardi sempre meno tollerabili: in materia di conciliabilità tra famiglia e lavoro; di rendite pensionistiche; di stereotipi di genere; o ancora di diritto penale, dato che un rapporto sessuale non consensuale ancora non viene riconosciuto per quel che è: uno stupro bell’e buono, senza tanti giri di parole.
Dai battipanni all’’elezione delle donne’
Autunno 2019: 84 donne (20 in più rispetto al 2015; il 42% dei seggi) vengono elette al Consiglio nazionale; al Consiglio degli Stati, dopo aver perso costantemente terreno dal 2003 fino ad 2015, la quota femminile raggiunge il 26,1%, il valore più alto mai registrato.
Di acqua ne è passata sotto i ponti. Negli anni 40-50 del secolo scorso, sui manifesti per il ‘No al diritto di voto delle donne’, nella Svizzera tedesca campeggiavano un ciuccio con una mosca sulla tettarella e un battipanni, a rappresentare bambini e focolai domestici trascurati dalle donne che fanno politica. Una politica fatta diversamente. Private del diritto di votare e di essere elette, le donne “hanno fondato riviste, si sono riunite in società e organizzazioni (...), hanno dimostrato, marciato, scioperato, stretto alleanze con parlamentari solidali, hanno rivendicato i loro diritti dinanzi al Tribunale federale e praticato la disobbedienza civile”, ricorda la Commissione federale per le questioni femminili (Cfqf). Una lotta a denti stretti, che continua tuttora, contro un’ideologia dominante strettamente intrecciata con i miti fondatori della Confederazione, basati sulla fratellanza virile, spiega il politologo Werner Seitz nel suo recente libro ‘Auf die Wartebank geschoben’ (‘Lasciate in panchina’).
Conseguenze ‘ancora oggi considerevoli’
La strada non è ancora in discesa. La rappresentanza femminile non aumenta in maniera naturale. In effetti, è in buona parte grazie a una mobilitazione senza precedenti delle organizzazioni femminili – con l’appello ‘Helvetia ruft’, e sulla scia del secondo sciopero nazionale – se quelle del 2019 si sono trasformate nelle ‘elezioni delle donne’ (oltre che del clima). In Consiglio federale la presenza femminile langue (su 119 consiglieri federali, sin qui solo 9 donne). Negli esecutivi e nei legislativi cantonali progredisce a ritmo non proprio sostenuto (sei esecutivi cantonali, compreso quello ticinese, sono esclusivamente maschili). E le disparità – tra le città e i piccoli comuni, tra i partiti di sinistra e gli altri, l’Udc in particolare – restano rilevanti. “Le conseguenze politiche e sociali” dell’ultradecennale ritardo accumulato “sono ancora oggi considerevoli”, scrive la Cfqf.
28 aprile 1991: le donne sono autorizzate dal Tribunale federale a partecipare per la prima volta alla Landsgemeinde di Appenzello Interno. Cade “l’ultimo baluardo maschile in Svizzera” (Swissinfo). Non abbastanza per poter parlare di una cittadinanza veramente inclusiva, con un diritto di voto esteso ai 16enni e agli stranieri. Né per dimenticare – come ricorda in queste pagine la storica Nelly Valsangiacomo – che a tutt’oggi “le persone economicamente più deboli sono anche quelle che partecipano meno alla vita democratica, e una significativa percentuale di tali persone è composta da donne”.
Petra Volpe, ‘le donne in politica sono contro l’ordine divino’ è la frase pronunciata da una protagonista del suo film che racconta la Svizzera del ’71. Cos’è cambiato?
Nella nostra società resistono innumerevoli pregiudizi profondi e inconsci. In molti ritengono ancora che ci siano cose adatte o sconvenienti a dipendenza che la persona sia un bambino o una bambina, un uomo o una donna. Ma sono tutte costruzioni sociali, non di ordine ‘divino’ o ‘naturale’: questi sono concetti creati dagli esseri umani e che possono essere modificati.
Per giungere a quel voto ci è voluto oltre un secolo di lotte femministe, spesso screditate. Com’è lo sguardo su questi movimenti oggi?
Molto spesso sono ancora ridicolizzati, non vengono presi sul serio o sufficientemente considerati. È come se i diritti delle donne non fossero una questione fondamentale. Invece valgono quanto i diritti per tutti gli esseri umani. Nelle agende politiche ci sono sempre problemi ritenuti più grandi che vengono anteposti all’uguaglianza tra uomini e donne. Questo fa male a tutta la società.
Il film mostra varie sfaccettature della disuguaglianza di genere ancora attuali. La conquista politica non è dunque stata pienamente assimilata e tradotta in parità?
Purtroppo c’è ancora tanto da fare. Le leggi dicono che uomini e donne devono essere trattati allo stesso modo, ma non vengono messe in pratica. Guardando alle statistiche si vede che non c’è uguaglianza al lavoro, a casa, in politica, a letto. La situazione è migliorata, ma non va ancora bene.
Le prime parole del film sono: ‘Nel 1971 il mondo era in movimento’ – riferendosi all’onda del ’68 – ‘Qui da noi, però, era come se il mondo si fosse fermato’.
La Svizzera ha sempre dimostrato di essere un Paese conservatore, che non ama i grandi cambiamenti, perché in fondo qui si sta bene. Questo ne fa una nazione molto stabile, ma che ha paura del nuovo e non si muove facilmente.
Negli ultimi anni sembra essersi estesa la capacità di fare rete tra i movimenti di donne di vari Paesi, si pensi all’influenza globale di ‘Me Too’ nato negli Stati Uniti (dove tra l’altro lei vive).
È un aspetto che ritengo di fondamentale importanza perché vuol dire che c’è una solidarietà oltre i confini. Il problema nei movimenti femministi è che spesso hanno condotto delle lotte in solitaria. Alla fine tutte quante vogliamo che le donne possano avere un’educazione, diritti politici, guadagnare al pari degli uomini, scegliere come vivere. Tuttavia è necessario rispettare le altre culture e i loro tempi, perché il femminismo non è allo stesso punto ovunque.
Tra le figure centrali del film c’è una italiana che in quanto donna e lavoratrice migrante si trova in una doppia condizione di subalternità. Lei crede in un femminismo intersezionale?
Assolutamente sì. Per come lo concepisco io, il femminismo è una lotta anche contro il razzismo, per la gente povera e marginalizzata. Non si tratta di acquisire privilegi solo per una piccola parte delle donne. E non è neppure una questione di donne contro uomini: il nemico non è l’uomo, ma l’oppressione sistematica del patriarcato. Anzi, questa battaglia riguarda anche gli uomini perché libera pure loro da immagini e aspettative che spesso sono una prigione. Il femminismo è per l’umanità e i diritti di tutti.
Qual è la sua esperienza come regista? Ha trovato pregiudizi o difficoltà?
Quando ero giovane sentivo che per una regista era più difficile avere la fiducia della gente, quindi avevo sempre la necessità di dover provare le mie capacità. Ero io stessa a non credere pienamente di essere in grado di fare questo lavoro e ad aver paura di sognare. Ma si tratta di una condizione in cui si trovano molte donne perché la società spesso trasmette il messaggio che ci sono cose che non ci competono. D’altronde in molti ambienti è evidente che le donne hanno meno possibilità. Hollywood, ad esempio, è il business più sessista del mondo, ancora più del militare.
Pensa che il cinema possa essere un mezzo per far prendere consapevolezza di determinate storture nel sistema e contribuire a cambiare le cose?
Ho molta fiducia nel cinema perché credo nella sua forza di raccontare delle storie che permettano di far cambiare di prospettiva alle persone. I film non devono essere propaganda, ma possono aprire la porta verso altre esperienze, farci entrare nei panni degli altri e creare empatia. E questo è davvero potente.
Fabrizio Gilardi, alle ultime elezioni federali le donne in Parlamento sono aumentate di una decina di punti percentuali. Una tendenza promettente?
Il dato è positivo ma bisogna tener conto del fatto che non si tratta di un’evoluzione spontanea, bensì del frutto di un grande lavoro. La campagna ‘Helvetia Ruft’, promossa prima delle elezioni del 2019 con lo scopo di portare trasversalmente più donne nelle liste di tutti i partiti e di tutte le regioni, è stata fondamentale per raggiungere questo risultato. Il gruppo di promotrici ha agito su due fronti, da una parte cercando di trovare donne interessate a candidarsi, dall’altra facendo pressione sui partiti in modo che mettessero a disposizione dei posti nelle loro liste. Sappiamo che il numero di donne elette dipende da diversi fattori: dal tipo di istituzione politica – c’è differenza tra Camera alta e bassa –, da quali partiti avanzano – quelli progressisti presentano sempre più donne –, ma l’equazione più donne in lista uguale più donne elette è appurata. A mio avviso si è trattato di una campagna intelligente ed efficace.
C’è chi però ha criticato ‘Helvetia Ruft’ dicendo che ‘essere donna non è un programma’.
Questa campagna ha lavorato assieme ai partiti, all'interno dei quali le nuove arrivate hanno condiviso e promosso programmi e idee in cui si riconoscevano. Non si è dunque trattato di una presenza fine a sé stessa priva di contenuti, ma di una sinergia fra entrambe le parti.
Come votano le donne in Svizzera rispetto agli uomini?
La questione è complessa perché le donne come gli uomini non sono una categoria omogenea. A seconda dei partiti e degli argomenti, i loro posizionamenti sono molto diversi, così come variano i punti di vista sul ruolo della donna nella società, su quello dello Stato e della famiglia. Rispetto al congedo paternità, ad esempio, la sinistra è molto compatta nel sostenerlo, invece nei partiti borghesi, tendenzialmente contrari, c’è qualche spaccatura tra uomini e donne. Esistono poi dei temi, come l’esercito e l’ambiente, su cui vi è una marcata differenza alle urne.
Come varia la rappresentanza delle donne nelle aree politiche?
Considerando la fotografia del Consiglio nazionale formato nel 2019, c’è una linea retta che per le candidate donne va dal 50-55% dell’area rosso-verde al 20-25% dell’Udc. La sequenza segue in modo molto diretto l’asse sinistra destra, lungo il quale ad ogni passo si perde un 5-10% di donne.
La presenza inferiore di donne negli esecutivi rispetto ai legislativi rispecchia un fenomeno più ampio nella società?
Sì, in generale più si va verso posizioni di alta responsabilità, meno donne si trovano. Questo capita in politica come anche nella maggior parte degli altri ambiti, dall’economia all’università. Progredendo nella scala della carriera, le donne si decimano.
A che livello si situa il principale scoglio per le donne in politica: sono loro a presentarsi poco, i partiti a non metterle in lista, gli elettori a non votarle?
L’ostacolo non sono gli elettori, ma si trova nell’interazione tra gli altri due elementi. Da una parte le donne presentano una minor ambizione per le cariche politiche. Dall’altra – anche se come visto le cose stanno migliorando – gli sforzi dei partiti per attirare candidate si rivelano insufficienti e questo si traduce nel minor spazio che occupano in seno alle istituzioni.
Che influenza ha avuto sul panorama politico svizzero lo sciopero femminista del 14 giugno 2019?
In generale c’è una percezione molto condivisa che il 2019 sia stato l’anno delle donne e che questo abbia avuto un forte impatto. Si è trattato certamente di un avvenimento importante, ma è difficile identificare degli effetti concreti. Studiando la questione, a medio e lungo termine non abbiamo riscontrato molti cambiamenti. Nei media, ad esempio, il tema dell’uguaglianza ha trovato molta risonanza nella settimana dello sciopero ma poi è andato scomparendo. Sempre rispetto ai media abbiamo anche cercato di capire se le candidate politiche fossero state più menzionate a seguito del 14 giugno, ma non è stato così. L’impressione è che ci sia stato un effetto diffuso ma poco misurabile.
Quali sono le cause strutturali della sottorappresentanza delle donne in politica?
Si tratta di una congiunzione di fattori. In Svizzera tendenzialmente non è facile conciliare l’attività professionale e la famiglia, soprattutto per le donne sulle quali pesa ancora in modo sproporzionato il lavoro domestico. Entrare nel nostro sistema politico di milizia è un passo che comporta un ulteriore carico. Ma non è solo questo, perché le differenze emergono già in giovane età. All’Università di Zurigo abbiamo fatto un sondaggio tra studenti e studentesse sulle ambizioni politiche e dai risultati si constata un interesse molto minore delle ragazze a presentarsi in politica. Una distinzione dei ruoli sembra ancora essere molto introiettata nella società. Le campagne come quella menzionata per aumentare le donne in politica sono un modo concreto di agire per cambiare la percezione e le aspettative delle giovani, permettendo loro di identificarsi anche con chi legifera e prende le decisioni che riguardano tutti i cittadini. È questo uno degli effetti più importanti. C.P.