Martin Schlegel pare preferire continuare a indossare i paraocchi monetaristi e in nome dell'indipendenza vedere ancora il suo foglio Excel in equilibrio
Che la Banca nazionale svizzera si comporti come uno dei più grandi Fondi comuni d’investimento al mondo non vuol dire che lo sia. Forse bisognerebbe ricordarlo ogni tanto al neopresidente Martin Schlegel, il quale nelle sue prime apparizioni pubbliche ha dato segni di essere un po’ lontano dal physique du rôle del banchiere centrale.
Con il suo “niet” a priori alla distribuzione degli utili a Confederazione e Cantoni, pronunciato con estrema superficialità pochi giorni fa a Zurigo, in quanto “la priorità va data al rafforzamento dei fondi propri”, Schlegel ha tralasciato il fatto che tale versamento non è una decisione che debba essere presa dai vertici della Bns, ma una circostanza definita nella Convenzione sottoscritta tra l’Istituto di emissione e il Dipartimento federale delle finanze nel 2021. Convenzione che stabilisce le condizioni che rendono plausibili i versamenti per il periodo 2020-2025 e che a breve dovrà essere rinegoziata. Le informazioni omesse, fondamentali per riuscire a contestualizzare le dichiarazioni del presidente della Banca nazionale, riguardano la “necessità” autoimposta di attribuire al conto degli accantonamenti per le riserve monetarie un importo minimo di almeno il 10% della loro consistenza alla fine dell’esercizio (per quest’anno 11,5 miliardi), ma soprattutto il riporto negativo di 53 miliardi di franchi sul conto di riserva per future ripartizioni. Un fardello frutto della scellerata decisione dell’Istituto di aver applicato alla lettera per quasi due anni la ricetta ortodossa di inasprimento monetario quale principale arma per combattere l’inflazione importata dall’estero. Una fallacia più grande dell’intero bilancio della Bns – una “cura” endogena per affrontare un fenomeno determinato da cause esogene – per la quale oggi ci si ritrova a pagare il conto.
Fatto sta che il cambio di paradigma della politica monetaria ha comportato nel 2022 un disavanzo contabile di 140 miliardi di franchi completamente “a carico” delle future ripartizioni, che sono così passate da un saldo positivo di un centinaio di miliardi a -40. Situazione leggermente peggiorata nel 2023, quando lo stesso conto ha dovuto assorbire altri 13 miliardi di “perdita”.
Ciò che ora avrebbe dovuto comunicare Schlegel è che se alla fine di quest’anno l’utile (cosmetico) della Bns dovesse rimanere uguale o inferiore ai 62,5 miliardi di franchi conseguiti nei primi tre trimestri del 2024, l’ammontare distribuibile – dal quale, semmai, andrebbero prima dedotti 1,5 miliardi di dividendi a favore degli azionisti privati – sarebbe pari a zero. Proprio perché, disattendendo l’esigenza di definire gli accantonamenti sulla base dell’evoluzione dell’economia svizzera (articolo 30 capoverso 1 della Legge sulla Banca nazionale), Schlegel pare preferire continuare a indossare i paraocchi monetaristi, e in nome della conclamata indipendenza della Bns vedere ancora il suo foglio Excel in equilibrio.
Che poi, per assurdo, l’assoluta “indipendenza” della Bns – che la porta tra le altre cose a finanziare il deficit gemello degli Usa e la stabilità macro dell’Ue, ma non ad acquistare titoli pubblici elvetici nel mercato primario (divieto imposto per legge) senza che nessun primanostrista gridi allo scandalo – viene difesa a spada tratta dal fronte liberal-conservatore, mentre finisce per condizionare la politica economica di Confederazione, Cantoni, Comuni e pure delle aziende: tutti un po’ meno indipendenti dalla performance e dalle decisioni della Banca centrale di un Paese in cui la principale “materia prima” di esportazione si chiama franco svizzero.