Troncare una relazione sparendo senza spiegazioni: un comportamento che nell’epoca del web è visto sempre più come vera e propria violenza psicologica
Uno spettro si aggira per la Rete. Parafrasando Marx, potremmo così riassumere il diffondersi, nell’era della comunicazione virtuale, del comportamento definito “ghosting” che negli ultimi anni è stato inquadrato come vera e propria violenza psicologica.
Il termine, già diffuso a livello di slang e sdoganato ufficialmente nel 2015 dal New York Times a proposito della rottura della relazione fra Sean Penn e Charlize Theron, indica l’atto di interrompere bruscamente, unilateralmente e senza spiegazioni una relazione affettiva e sentimentale sparendo senza lasciare tracce. Diventando un “ghost”, un fantasma: nessuna risposta a messaggi o chiamate, spesso un blocco dei profili social per impedire di essere contattati. Una sparizione che lascia spesso la persona che la subisce in preda a un profondo disagio, fino a essere vissuta come una vera e propria violenza psicologica che lascia conseguenze.
Un fenomeno che per qualcuno dovrebbe essere addirittura considerato reato. Il deputato filippino Arnolfo Teves jr. nel 2022 ha presentato una proposta di legge per dichiarare il ghosting “emotional offense”, ritenendo che “può essere paragonato a una forma di crudeltà emotiva e dovrebbe essere punito come un reato a causa del trauma che provoca alla parte ‘ghostata’”.
«In linea di massima, chi subisce ghosting vive un doloroso senso di spaesamento – spiega la psicoterapeuta Silvia Pittera, esperta di relazioni disfunzionali –, unito a un disagio generale che impatta in maniera significativa un po’ in tutte le sfere della vita della persona, e, spesso, un doloroso senso di colpa, generalmente accompagnato da una buona dose di rabbia per non avere potuto avere un confronto. Queste emozioni più dirompenti, col passare del tempo, lasciano spazio alla paura che possa accadere di nuovo in una prossima relazione. Ci si approccia perciò all’altro in maniera più sospettosa, talvolta controllante, avendo perso buona parte della fiducia nel prossimo e della propria autostima».
Un’esperienza vissuta in questi termini da Francesca (nome di fantasia): «Avevo una relazione da circa cinque mesi con un uomo di un’altra città: fino ad allora mi era stato vicino in un momento per me un po’ difficile, mi riempiva di attenzioni, mi diceva che ero la donna della sua vita, un po’ il classico “love bombing”. Gli ho scritto per accordarci sul fine settimana da trascorrere insieme… ed è sparito: ha continuato a visualizzare i miei messaggi senza mai più rispondermi».
Un vissuto che ha lasciato conseguenze: «Ci sono rimasta malissimo, per un anno non ho più voluto avere altre relazioni. È tremendo: non capisci perché l’altra persona abbia voluto chiudere così e ti faccia questo affronto senza cercare un dialogo. Il giorno prima sei in cima ai suoi pensieri e il giorno dopo cominci a vedere che non lo sei più: apri WhatsApp, vedi che la chat con lui comincia ad andare sempre più in basso e per farti meno male la elimini. Ed è brutto, perché una persona importante non può essere eliminata così, come non fosse mai esistita. Mi sono messa tanto in discussione, pensavo fosse colpa mia, che avessi sbagliato tutto. Perché non meritavo nemmeno una spiegazione? Perché non ero più niente, da un momento all’altro? Queste persone mettono al centro loro stesse, come se fossero loro a comandare, non ti lasciano spazio, soprattutto per un confronto: sono codarde, perché non sanno sostenere una discussione. E posso accettarlo in una storiella da adolescenti, non da una persona che ha passato i 40. Tutto questo mi ha causato ansia: ancora oggi se una persona non si fa viva per un certo tempo vado nel panico e penso che stia per succedere ancora. Non vivi più serenamente un coinvolgimento emotivo».
Francesca aggiunge un particolare alla sua storia: «Quando mi sono accorta che mi aveva ghostata l’ho rimosso dagli amici di Facebook, mentre lui, stranamente, mi ha bloccata solo su Instagram ma non su WhatsApp». Una modalità, dunque, di sparizione solo parziale dell’altra persona, ma non per questo meno dannosa per la salute mentale di chi la subisce, conosciuta come orbiting.
«Tecnicamente fare orbiting (dall’inglese “to orbit”, ovvero orbitare intorno a qualcosa) vuol dire non scomparire improvvisamente e definitivamente dalla vita della persona con cui si era intrattenuta una relazione, ma farlo gradualmente mantenendo viva una presenza ridimensionata alla sola sfera virtuale», spiega ancora la psicoterapeuta. «Chi fa orbiting si prodiga in like e commenti a foto e storie su Instagram o visualizzazioni di contenuti pubblici, come se volesse mantenere una sorta di “presenza virtuale” nella vita dell’altro, ma negandosi ai messaggi e alle interazioni dirette. La relazione rimane così caratterizzata da ambiguità e poca chiarezza e chi riceve le attenzioni virtuali si chiede, non potendo avere risposta, il significato di quelle interazioni, con grande frustrazione e senso di spaesamento. L’orbiter non sa stare né dentro né fuori la relazione e, in modo più o meno consapevole, staziona in un limbo relazionale in cui obbliga a stare anche l’altra persona. I motivi alla base di questo comportamento sono tanti quante sono le persone che lo esercitano e spaziano dall’intenzione manipolativa di confondere l’altro al fine di mantenere un controllo su di esso, fino alla più totale inconsapevolezza della confusione e del disagio che si può generare nell’altro regalandogli una presenza blanda e virtuale. Come per il ghosting il quadro culturale di deriva delle relazioni spiega il fenomeno, senza “giustificarlo”. Intendo che chi lo subisce può iniziare a smettere di chiedersi, logorandosi, i motivi per cui la persona in questione ha messo un “like” all’ultima storia pubblicata ed esercitare il sacrosanto “diritto di sottrarsi” a una relazione che intossica più che nutrire».
Per Claudia (nome di fantasia) l’esperienza con il ghosting è stata ancora peggiore. «L’avevo conosciuto online, avevamo iniziato una frequentazione. Non abitavamo nella stessa città, il che faceva sì che non fosse sempre presente. Dopo tre mesi un giorno gli mandai un messaggio: lo lesse ma non rispose. L’ho visto online per un po’ di tempo, ma ancora non ricevevo risposta. Gli mandai un altro messaggio: ancora niente. Dopo due o tre messaggi da lui letti ma senza alcuna risposta, sentendomi profondamente in imbarazzo a continuare a parlare da sola ho lasciato perdere. E ho iniziato a chiedermi: cosa ho sbagliato? Cosa ho detto o fatto per farlo reagire in questo modo? Andai avanti così per due o tre mesi: pensavo fosse arrabbiato con me, non riuscivo a darmi una spiegazione. Ogni volta che sullo smartphone vedevo quei messaggi letti ma non risposti l’imbarazzo era troppo forte. Mi vergognavo di me stessa, cancellai tutto». Ma non era ancora finita: «Dopo tre mesi si ripresentò dicendomi che aveva scoperto di avere un tumore e voleva tenermi all’oscuro di tutto per non “inquinare” la mia vita con la sua storia. Gli credetti, e ricominciammo a frequentarci. Nel giro di tre o quattro mesi, sparì di nuovo, e andò avanti così per circa un anno: ricompariva per tre mesi e poi spariva, per poi riapparire dopo altri tre mesi».
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Poi, l’amara verità: «Quando ho deciso di dire basta mi confessò che quello che mi aveva dato non era il suo vero nome, che era sposato e aveva una figlia. Volevo denunciarlo, ma non lo feci perché pensai a quella bambina e mi dispiacque per lei. Però lo bloccai ovunque. Negli anni ha continuato a ripresentarsi, di solito in estate, con messaggi del tipo “come stai”, cambiando sempre numero: regolarmente lo blocco». Anche per Claudia l’esperienza non è stata indolore, tutt’altro: «Questa storia mi ha devastata psicologicamente. All’inizio mi sentivo molto in colpa, pensavo di essere sbagliata io. L’esperienza ha influenzato molto il mio rapporto con gli uomini negli anni successivi: ero diventata molto diffidente. Cercavo nomi, cognomi, indirizzi; non mi fidavo di nessuno. Appena qualcuno non leggeva e non rispondeva rapidamente andavo in ansia, pensando si stesse ripetendo la storia. È andata avanti così per qualche anno, poi pian piano ho capito che il problema non ero io, ma loro: persone con problematiche irrisolte, che invece di affrontare la situazione scelgono la via più facile della sparizione. E poi tornano con altre scuse”.
Ma quali sono le dinamiche e motivazioni dietro questo comportamento? «Alcune ricerche sul ghosting – prosegue ancora Silvia Pittera – suggeriscono, per la persona che lo pratica, un profilo con tratti borderline e/o narcisisti sul versante della personalità ed evitanti su quello dell’attaccamento. Al di là delle etichette diagnostiche che, per quanto utili, ci allontanano da una riflessione più complessa, però, direi che non c’è una risposta univoca e definitiva alla domanda sul perché una persona possa ghostarne un’altra. Sicuramente in chi lo fa sussistono alcune grandi difficoltà: la difficoltà a stare in situazioni potenzialmente conflittuali o dolorose legate alla fine a una relazione, a tollerare l’abbandono dell’altro. In quest’ottica il ghosting è una difesa, senz’altro patologica, contro l’angoscia abbandonica: “Abbandono per primo così mi illuderò di avere il controllo sulla possibilità di essere abbandonato”. Infine, la difficoltà a empatizzare con la persona che si sta ghostando, perché si è già troppo centrati su sé stessi per vedere il dolore altrui, figuriamoci per farsene anche solo in parte carico».
«Il fenomeno, in crescita esponenziale, ha ragioni culturali, oltre che strettamente psicologiche», spiega ancora la psicoterapeuta. «Va inquadrato in una deriva più ampia delle relazioni sentite da sempre più persone come effimere, strumentali. Ovviamente la proliferazione virtuale dell’esistenza che ormai si dipana tra un like o un follower e l’altro, non aiuta a percepire l’altro come un essere umano con sentimenti ed emozioni da rispettare. Ci stiamo così tanto abituando alla possibilità di avere ogni informazione a portata di click che tendiamo a oggettualizzare anche le persone, credendo di poterci affacciare alle loro esistenze con la stessa facilità con cui otteniamo “cose” grazie alla Rete. Ma le persone non sono “cose” che possiamo prendere e lasciare quando non ci servono più».
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Ma non sempre, precisa l’esperta, è corretto parlare di ghosting: «Non rispondere, negarsi, prendere tempo, pretendere di non essere visti (o seguiti, in ambito social) quando una relazione finisce è un diritto che va esercitato, ma in maniera adulta, assumendosene le responsabilità e soprattutto comunicandolo. La presenza dell’altro non è un nostro diritto, soprattutto quando la relazione che avevamo non era funzionale o peggio era violenta. In quest’ultimo caso sparire non è ghosting, è sopravvivenza. Non è ghosting nemmeno quando, esasperati da mille spiegazioni già fornite, decidiamo di sottrarci alla relazione, non rispondendo più o rendendoci irreperibili. Come sempre la realtà è complessa e a essa dobbiamo guardare col filtro della complessità».
Si può uscire dal ghosting? Sicuramente sì, come spiega la counselor Jessica Bollati: «Una delle strategie è quella di smettere di cercare la persona, non alimentare ulteriormente la dinamica. È importante cercare un sostegno che possa aiutare a entrare in un’ottica alternativa, quella dove si comprende che chi agisce scomparendo senza dar spiegazioni ha delle difficoltà relazionali e che ciascuno è responsabile delle proprie azioni. Non sta alla vittima – prosegue l’esperta – chiedersi quali siano le difficoltà dell’altra persona, così com’è necessario comprendere su che base la vittima non riesca a prendere le distanze da una persona che si mostra inaffidabile. Credo sia più importante lavorare sull’autostima e comprendere che la nostra vita merita persone affettivamente stabili e presenti: è necessario ristabilire il proprio equilibrio interiore tramite le attività che ci nutrono. Sono fondamentali in questo senso l’avere intorno un tessuto sociale florido, il sostegno di chi tiene a noi e la consapevolezza che essere vittima di un comportamento scorretto non è una colpa».
Si è accennato in precedenza al "love bombing": un comportamento che costituisce anch'esso una forma disfunzionale di relazione e che spesso, come nella storia di Francesca, precede il ghosting. Ma di cosa si tratta?
«Il love bombing è una fase, travolgente, intensa ed emozionante perché coincide con i primi periodi di frequentazione – spiega Bollati –: è a tutti gli effetti una tecnica manipolatoria con la quale viene messa in atto tutta una serie di azioni, comportamenti, gesti e parole lusinghieri con cui la persona viene “bombardata”. La vittima si sente ricoperta di attenzioni e questo può indurre una vera e propria dipendenza da quei riconoscimenti. Questa forma di manipolazione può precedere il ghosting ma non sono fenomeni legati in modo stretto. Il narcisista inizialmente “bombarda” romanticamente la preda per corteggiarla e sedurla. Persone che non hanno già una buona rete di riconoscimenti e carezze esistenziali si prestano maggiormente a tali meccanismi manipolatori perché essi vanno a rispondere ad un bisogno già in parte esistente che poi viene amplificato dalla tecnica manipolatoria, fatta di alternanza tra valorizzazione e svalutazione repentine».
C‘è dunque un rischio maggiore di essere ghostate, per queste persone? «Il ghosting è un comportamento che dipende dall'autore, non dalla vittima. La probabilità di essere ghostati è uguale per tutti: quella di soffrirne particolarmente, di sentirsi maggiormente devastate, è invece più alta per le persone che hanno già delle fragilità».
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