Oggi il quadro è alquanto sfavorevole al progetto di ritorno all’integrità territoriale del Paese aggredito militarmente dalla Russia
Diceva Zbigniew Brzezinski, ex segretario di Stato americano, origine polacca, quindi antenne sensibilissime sull’evoluzione del post-sovietismo, che “senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero, mentre con un’Ucraina subalterna a Mosca la Russia diventa automaticamente un impero”. Esattamente quello che pensa Vladimir Putin. Il quale, negli anni successivi all’affermazione di Brzezinski, cominciò a lanciare il suo verbo sull’“inesistenza” stessa di una nazione ucraina, considerandola ancora e sempre parte inalienabile, costitutiva, primaria della ‘Madre Russia’ e della sua dimensione imperiale, retroscena ideologico poco considerato da chi “non giustifica, ma capisce” la reazione russa spiegata solo con l’allargamento della Nato “fin sotto le mura del Cremlino”. Ecco perché, a Kiev ma non solo, si ripete spesso che l’ambizione strategica dello ‘zar’ non si esaurirà con il conseguimento di un cessate il fuoco o di una pace transitoria.
Fallito l’obiettivo iniziale, conquistare con un blitz il controllo diretto o indiretto della ‘piccola Russia’ (parte, con la Bielorussia, della triade che deve garantire la base per la diffusione del suo progetto euro-asiatico), Putin deve ora ottenere il massimo dei traguardi possibili, cioè almeno il recupero di tutto il Donbass, regione a maggioranza russofona (ma non tutta filo-russa) da includere nella Federazione, dando per scontata, ormai anche a ovest, l’irreversibilità della riannessione alla Russia della Crimea. Un’Ucraina dunque non domata, ma amputata della sua parte più industrializzata e ricca di materie prime. Risultato della sostanziale riuscita controffensiva armata cominciata un anno fa sullo scacchiere orientale, e della disordinata politica occidentale di sostegno militare a Kiev.
In questo quadro oggi sfavorevole al progetto di ritorno all’integrità territoriale del suo paese (riconosciuta a livello internazionale, ma violata con l’aggressione del febbraio 2022), il presidente Volodymyr Zelensky imprime un’accelerazione politica, spinto anche e soprattutto dalla ‘stanchezza’ degli alleati, dalle loro divisioni, dall’umore delle rispettive opinioni pubbliche, e dal possibile ritorno di un Donald Trump che risolverebbe la questione sbrigativamente a favore del Cremlino: “La Russia attacchi pure i Paesi Nato che non pagano”, arrivò ad affermare lo scorso febbraio il tycoon, ed è tutto un programma. In questa situazione, Zelensky, ‘commesso viaggiatore’ frenetico e un po’ fastidioso, cambia discorso e parla di “pace possibile nel 2025”: realizzabile grazie al suo “piano della vittoria”, definizione alquanto bizzarra.
Quale possa essere la ‘vittoria’ non si capisce vista la realtà sul terreno, mentre è inimmaginabile la cosiddetta e ventilata ‘soluzione coreana’, cioè il congelamento della situazione attraverso un semplice armistizio, che lungo il 38esimo parallelo asiatico dura da oltre settant’anni. Quel che invece si sa è che Vladimir Putin non accetterebbe di rinunciare a un solo metro quadrato delle sue conquiste militari (modello Yalta). In aggiunta, non rinuncerà alla ‘neutralizzazione’ dell’Ucraina: quindi ‘niet’ alla sua adesione alla Nato, e fors’anche all’Ue, che la strategia del Cremlino tenta di disarticolare alimentando la crescita dell’estrema destra identitaria e nazionalista nel Vecchio Continente. Tragico rebus per chi crede che non vi possa essere pace senza giustizia.