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‘Da decenni la Banca nazionale segue il manuale sbagliato’

Per l'economista Sergio Rossi non ci sono dubbi: ‘La politica monetaria serve a poco se non è coordinata con la politica fiscale e di bilancio’

L’uscita di scena di Thomas Jordan
(Keystone)
27 settembre 2024
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«Era una decisione attesa per diverse ragioni – esordisce, interpellato da laRegione per un’analisi, l’economista Sergio Rossi, professore ordinario di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo –: le banche centrali più importanti, fra cui la Federal Reserve americana, hanno di recente effettuato dei tagli sui tassi di interesse. Quindi era logico che la Bns si muovesse in questa direzione. Inoltre, il franco si è apprezzato ulteriormente rispetto all’euro nelle scorse settimane e questo, lo sappiamo, incide negativamente sulle esportazioni svizzere. Anche se bisogna considerare che per l’export elvetico conta di più la prospettiva di crescita economica nei Paesi verso i quali si esporta, e un po’ meno il tasso di cambio. Infine, risulta evidente che la Bns vuole evitare una crisi del debito nel mercato ipotecario».

Ieri il presidente uscente della Banca nazionale Thomas Jordan ha dichiarato che attualmente “i rischi al ribasso per l’inflazione sono più elevati di quelli al rialzo”. La Bns sta già lottando contro il pericolo di una deflazione?

La deflazione pesa sui debiti e sui profitti delle imprese, per cui è chiaro che per la Bns è importante evitare un tale scenario: oggi siamo a un tasso medio di rincaro annuo dell’uno per cento nel mercato dei prodotti. E sappiamo che l’Ipc (indice dei prezzi al consumo, ndr) tende a sovrastimare l’andamento dei prezzi. Quindi si potrebbe dire che siamo già in una situazione di sostanziale inflazione zero in questo mercato, sebbene il potere d’acquisto dei consumatori sia eroso dal rinnovato aumento dei premi dell’assicurazione malattia.

Col senno di poi, ritiene la stretta monetaria attuata dalla Bns esagerata? O addirittura inutile?

Più che inutile direi esagerata, nella misura in cui potrebbe comportare un certo scompiglio nel mercato ipotecario, in quello immobiliare e di riflesso in quello interbancario. Hanno esagerato con l’aumento dei tassi di interesse perché hanno letto male i fattori che hanno spinto l’incremento dei prezzi al consumo. Non era un problema di eccesso di domanda ma di tensioni dal lato dell’offerta. Più che la politica monetaria, sarebbe stata la politica finanziaria dello Stato che avrebbe dovuto essere attivata per contrastare l’inflazione. In che modo? Per esempio, tassando maggiormente i profitti straordinari ottenuti da alcune aziende durante la pandemia e con l’aumento dei prezzi energetici a seguito della guerra in Ucraina.

Ci sarebbe quindi un legame tra la politica monetaria restrittiva e le politiche di austerità sventolate in questo periodo dalla Confederazione e da alcuni Cantoni, tra cui il Ticino?

Il legame c’è: sappiamo che gli effetti della politica monetaria agiscono con un certo ritardo, come diceva Milton Friedman. Lui aveva stimato dai due ai tre anni, da quando si riduce o si aumenta il tasso di interesse fino a quando questa scelta incide sulla domanda aggregata. Ciò vale anche per la politica di bilancio: se questa è austera, gli effetti si avvereranno fra due o tre anni. Così è successo con la Grecia: si è ridotto il disavanzo pubblico, ma si è ridotto maggiormente il Pil di quel Paese. Se ciò avviene, il rapporto fra disavanzo e Pil aumenta e questo richiede maggiori sacrifici per la popolazione, in una spirale che trascina tutta l’economia verso il basso.

Paradossalmente si potrebbe pensare che un certo livello di deficit fiscale federale potrebbe fungere da “freno” al rafforzamento del franco?

Teoricamente sì, perché se uno Stato ha un disavanzo è considerato meno solido e gli investitori istituzionali si allontanano. La Svizzera gode però di altri vantaggi di posizione, di natura geografica e di reputazione, in quanto piazza finanziaria ritenuta meno fragile rispetto ad altre. Se il franco si indebolisse a causa dei disavanzi pubblici non credo che sarebbe un indebolimento così marcato da far aumentare l’export elvetico. Il deficit pubblico avrebbe in realtà un’altra funzione più importante: sia a livello federale che cantonale potrebbe sostenere e rilanciare le attività economiche. Quando l’economia privata va male, l’unica fonte di rilancio è lo Stato. Non esiste nessuna mano invisibile in grado di risolvere i problemi. La spesa pubblica potrebbe rilanciare le attività economiche e generare ricadute fiscali positive quando l’economia privata avrà ripreso a funzionare bene. Ma questa visione viene rifiutata in quanto etichettata di “sinistra”, anche se fu proposta da un economista liberale come Keynes. Invece si continua a ragionare come dei manager che guardano solo all’equilibrio dei conti su un foglio excel, senza una prospettiva di medio-lungo termine. Oggi gli economisti post-keynesiani parlano del “paradosso del deficit”: se si registrano dei disavanzi pubblici vuol dire che qualche attore economico incasserà di più. E questo potrebbe contribuire a innescare un effetto “indotto” nel circuito economico, che permetterebbe allo Stato di fare fronte più facilmente al debito accumulato. Andrebbe capito che lo Stato è un partner, non un antagonista dell’economia privata.

Insomma, la politica monetaria non basta per fermare l’erosione del potere d’acquisto…

La politica monetaria da sola può fare poco o nulla se non è coordinata con la politica fiscale e di bilancio del settore pubblico. Occorre che la Bns coordini i propri interventi col governo federale: i loro interventi devono essere complementari, non uno andare nella direzione opposta rispetto all’altro. Se la politica monetaria è espansiva, anche quella di bilancio e quella fiscale devono esserlo. La Bns può ridurre i tassi per rilanciare le attività, ma non è sufficiente. Thomas Jordan in un dibattito anni fa mi diceva che ci sono delle leggi naturali, come quella dei tassi d’interesse. Gli ho risposto che non sono d’accordo: questi tassi possono diminuire e anche diventare negativi, ma questo non garantisce uno stimolo all’investimento se per le imprese non c’è una prospettiva di vendita maggiore. È la domanda effettiva che spinge gli investimenti delle imprese. La Bns da parecchi decenni segue una visione da manuale, ma si tratta di un manuale sbagliato.

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