Ora che la minaccia viene sventolata da una capitale nucleare, paradossalmente si registra una pericolosa apatia politica e collettiva
C’è da sperare che vi sia ancora in giro uno Stanislav Petrov. Ricordate? È il tenente colonnello dell’esercito sovietico che in una notte del settembre 1983, di turno nel bunker Serbukhof-15, sta controllando i dati dei satelliti che spiano i movimenti degli armamenti americani; improvvisamente i suoi schermi gli segnalano che cinque missili nucleari intercontinentali sono partiti da una base statunitense del Montana. Bersaglio più che probabile l’Urss. Petrov sa che dovrebbe immediatamente far scattare l’allarme. E sa anche che la risposta atomica di Mosca, entro i successivi 5 minuti, sarebbe inevitabile. Olocausto nucleare garantito. Ma, nonostante il peso della terribile decisione da prendere in pochi secondi, c’è qualcosa che non convince il tenente colonnello sovietico. Se si tratta di un attacco all’Urss, perché un “first strike” con soli 5 missili? Perché non un “primo colpo” il più possibile devastante, come insegna il manuale della “distruzione reciproca garantita” (in inglese Mad, che significa anche “pazzo”)? Petrov decide di non reagire, non lancia l’allarme, disubbidisce al computer, ed evita così la catastrofe mondiale. Ha avuto ragione, perché si scoprirà poi che il rilevamento satellitare aveva confuso cinque riflessi atmosferici simultanei con altrettante strisce missilistiche.
Domanda: nel clima surriscaldato ed esasperato di questi tempi, con cinquanta conflitti mondiali in corso di cui due a noi vicinissimi (Ucraina e Palestina), con l’aspro scontro a distanza fra Cremlino e Casa Bianca, con la frequente evocazione da parte di Mosca di un ricorso all’arma nucleare tattica (destinata a bersagli territoriali limitati ma che può avere una potenza anche superiore a quella di Hiroshima, che fu di ‘soli’ 15 chilotoni), riuscirebbe il Petrov di turno a mantenere nervi saldi e mente fredda, evitando le tragiche conseguenze di un errore sempre possibile? E già questo è un brutto inquietante enigma. Poi c’è l’infinita gara fra gli esperti: le minacciose esternazioni atomiche di Putin e del suo sodale e vice Medvedev sono reali o sono soltanto un bluff? Nulla di certo, e l’inquietudine sale. Infine ecco una realtà forse ancora più preoccupante: la banalizzazione del discorso pubblico rispetto all’eventuale ricorso all’atomica tattica, di cui si parla come di un evento qualsiasi, semplicemente possibile, da tenere in considerazione come ipotesi, nella convinzione che sia un’arma come le altre, non necessariamente destinata, come invece probabilmente sarebbe, a un’escalation che ci intrappolerebbe e getterebbe tutti nell’immenso baratro dell’“Armageddon nucleare” mondiale.
È come uno stordimento generale. Qualcosa di mai accaduto nemmeno nell’era della guerra fredda. Quando evocare la ‘bomba’ era al tempo stesso rassicurante per il suo aspetto dissuasivo (perso nel frattempo) ma segnava anche una sorta di “tabù”, perché sinonimo del peggio che potesse accadere all’umanità. Per questo milioni di persone scesero e protestarono nelle strade mentre si riempivano gli arsenali atomici. Invece, ora che la minaccia viene sventolata da una capitale nucleare in guerra, ora che il pericolo si fa più reale e concreto, ora che gli ordigni nucleari tattici possono davvero entrare nel peggiore scenario di guerra degli ultimi 80 anni, paradossalmente si registra una pericolosa apatia politica e collettiva, un ostinato silenzio, una sorta di ‘banalità dell’indifferenza’. O dell’incoscienza. Comunque, uno fra i peggiori esiti di soli due anni e mezzo di guerra.