Pressato, per via dei sondaggi e dell’età, fa un passo indietro e lancia la vice Harris, che ha già iniziato la campagna, ma non è mai stata popolare
Joe Biden lo aveva detto, solo due pezzi di carta avrebbero potuto indurlo a ritirarsi: una diagnosi, oppure sondaggi esiziali. La settimana scorsa, col tempismo che la Storia sa avere quando si mette a fare la spiritosa, sono arrivati entrambi: Biden ha preso il Covid-19 e la speaker emerita Nancy Pelosi, in un colloquio pare movimentato, gli ha presentato numeri tali da far venire la nausea perfino a un uomo stabile e perseverante come lui.
Così, dopo aver lasciato passare un paio di giorni dalla trafelata chiusura della convention repubblicana, di modo da arginare per quanto possibile l’impressione che siano state le fanfare di Trump e J.D. Vance a disarcionarlo, la mattina di domenica 21 luglio il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti d’America ha rilasciato un comunicato sintetico, quasi laconico, nel quale annuncia il proprio ritiro dalla campagna elettorale e il sostegno alla vice Kamala Harris, con la quale pure il rapporto non è mai parso idilliaco.
Per uno che è stato fatto passare per rimbambito per settimane, nel momento cruciale Biden ha dato prova di una notevole padronanza di sé: ha sviato i sospetti dei media, che dopo aver accennato a un suo possibile ritiro nel weekend si erano invece quasi messi l’anima in pace, per poi fargli andare il pranzo di traverso e rovinargli la domenica al mare. A quanto pare, addirittura i più stretti collaboratori di Biden hanno avuto notizia del suo ritiro cinque minuti prima del tweet che lo comunicava al mondo. Il suo staff ha poi comunicato che rimarrà tuttavia alla Casa Bianca fino a fine mandato, senza dimissioni anticipate.
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Kamala Harris, per lei la grande occasione
Un presidente in carica non rinunciava al secondo tentativo dai tempi di Lyndon Johnson, che però aveva già governato per un mandato e mezzo (subentrando a Kennedy dopo il suo assassinio) ed era crollato sotto il peso politico ma anche morale della catastrofe nazionale del Vietnam. Nell’attesa di conoscere meglio le ragioni di Biden, che parlerà alla Nazione in settimana, di certo sappiamo che questa decisione resterà nella Storia: in quale corridoio, lo vedremo a novembre.
Di certo in questo caso si può usare a buon titolo una formula giornalistica un po’ pigra, e riconoscere che Biden ha ceduto a una “pressione insostenibile”. Nel weekend diverse voci lo davano “furioso” per il “tradimento” dello stato maggiore del partito, da Nancy Pelosi a Barack Obama, ma erano stati proprio i media di area dem a scavargli la terra sotto i piedi negli ultimi giorni. Il New York Times da tempo utilizzava toni categorici, per non dire scalmanati, nell’invitarlo a farsi da parte.
Basta questo a indicare la prima ragione d’imbarazzo per l’establishment progressista. Erano stati proprio i vertici del partito, col controcanto dei media amici, a deridere e svillaneggiare fino a qualche mese fa chiunque accennasse all’ipotesi di un cambio della guardia. Basti pensare che ben prima della scadenza delle candidature, il partito democratico aveva annunciato che non sarebbero stati organizzati né ammessi dibattiti tra i candidati, scoraggiando qualsiasi aspirazione parricida. “Nessuno di noi voleva fare la fine di Ted Kennedy” ha spiegato qualche giorno fa Julián Castro, tra i primi e più veementi pezzi grossi democratici a chiedere apertamente il ritiro di Biden, rispondendo a chi gli chiedeva perché lui o altri non si fossero candidati alle primarie mesi fa “che nel 1980 ha sfidato il presidente Carter alle primarie, ha perso con tutto il partito contro, e poi è stato incolpato della sconfitta contro Reagan”.
Pochi minuti dopo l’annuncio di Biden è arrivata la reazione furiosa di Trump, che lo ha salutato come “il presidente peggiore della storia”. Il tycoon era notoriamente scettico sull’ipotesi del ritiro, e ha probabilmente sentimenti ambivalenti in proposito. Da una parte si libera di un avversario insidioso, che lo aveva già battuto una volta e che anche in questa campagna aveva i difficilmente commensurabili ma spesso micidiali vantaggi dell’incumbency, cioè del presidente in carica. D’altra parte sa bene che il suo vantaggio nei sondaggi era andato aumentando di pari passo coi dubbi del paese sulla salute di Biden, e che un avversario più giovane e spigliato potrà dargli del filo da torcere. Secondo una battuta che è circolata molto sui media americani, il 27 giugno scorso Trump ha avuto la seconda peggior performance della storia dei dibattiti presidenziali, ma non se ne è accorto nessuno perché dall’altra parte c’era Biden, che ha avuto la peggiore in assoluto.
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È già iniziata la campagna di Harris
Ma chi sarà adesso a sfidare Trump? L’endorsement a Kamala Harris è un tentativo di pilotare questa crisi senza precedenti, ma sul suo nome c’è già un primo collo di bottiglia. Se da una lato pare impensabile che il partito ignori una chiara linea di successione per scavalcare la prima vicepresidente donna afroamericana e preferirle un maschio bianco come Gavin Newsom o Pete Buttigieg, contro Kamala Harris c’è prima di tutto un indice di popolarità da incubo, non da ieri ma dall’inizio della sua esperienza come vicepresidente. Questo è un dato che naturalmente si presta a due letture opposte: che Harris sia debole, o che in quanto donna afroamericana sia stata sottoposta a uno scrutinio senza precedenti, aggredita e ridicolizzata per errori tutto sommato comuni e infine sottoposta a un processo di “villainification” dai tratti sessisti.
C’è del vero, e il baratro dell’impopolarità di Harris è stato scavato anche con ricorrenti insinuazioni sul suo percorso di carriera e di vita, ma d’altra parte non c’è dubbio che l’unico precedente su cui si possa misurare la sua statura presidenziale, cioè la campagna per le primarie democratiche del 2019/2020, metta i brividi. Dopo un inizio promettente e quasi un anno di campagna, al momento del ritiro Harris si era ritrovata al 4% nei sondaggi, e se il pubblico le aveva voltato le spalle di certo non rischiava di vincere nemmeno il premio della critica: sul piano dei contenuti aveva oscillato paurosamente, inseguendo Bernie Sanders a sinistra per poi svoltare repentinamente in marcatura su Biden al centro, e la sua campagna è rimasta quasi leggendaria per la litigiosità dei suoi consiglieri, che si rifletteva in messaggi dalla complessità bizantina e dall’utilità nulla.
A seguito di una tale débâcle molti rimasero sorpresi dalla sua scelta come vicepresidente, che animò risentimenti probabilmente non ancora del tutto estinti. Ma al di là della discussione sui suoi meriti, ad agitare i vertici democratici c’è il poco confessabile timore che Kamala Harris non sia la candidata ideale da contrapporre a Trump, che già al momento quasi doppia i democratici nel gradimento tra l’elettorato maschile. Ai tempi della sconfitta di Hillary Clinton molti commentarono amaramente che l’America era pronta a eleggere un presidente afroamericano ma non una donna, una battuta cupa che in queste ore sta venendo ripetuta a denti stretti in molte influenti stanze di Washington.
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Sfottò davanti alla Casa Bianca...
Chiunque sia il candidato, comunque – e quasi certamente sarà Harris, che dopo l’endorsement di Biden in pratica può perdere la nomination solo rifiutandola (e, anzi, ieri notte ha già iniziato la campagna elettorale, con telefonate e prime richieste di donazioni) – avrà poco più di 100 giorni per presentarsi come alternativa a Trump, una figura arcontica per metà del Paese, metterlo in ombra e sconfiggerlo.
Un tempo quasi ridicolmente breve rispetto alla taglia delle campagne presidenziali americane, in tutti i sensi paragonabili ad aziende di medio-grandi dimensioni, che però secondo alcuni potrebbe rivelarsi un vantaggio: secondo i sondaggi due americani su tre erano scontenti del rematch tra Biden e Trump, e quasi uno su cinque addirittura minacciava di astenersi a causa dell’età avanzata e della mancanza di proposte politiche innovative dei candidati. Una figura nuova – magari per il resto non distante da Biden, e in grado di ricalcarne il posizionamento che nel 2020 gli ha permesso di battere Trump in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, gli stati che probabilmente decideranno anche queste elezioni (e Kamala Harris a dispetto dell’impopolarità generale ha numeri discreti proprio in alcuni di essi) – ha qualche probabilità di spalancare l’armadio di Dorian Gray di Trump e mostrarlo al paese per ciò che è davvero: un uomo di 78 anni che fa politica coi soldi di famiglia da quando alla Casa Bianca c’era Reagan, e già una volta come Presidente è stato bocciato senza appello dagli elettori, per giunta con le conseguenze tragiche e violente che il paese ben ricorda. Non bisogna dimenticare che Trump, che spesso viene ancora descritto dai media come un supercattivo quasi invulnerabile, connesso al “popolo” da energie sensuali o addirittura mistiche, è sì in vantaggio rispetto a un Partito Democratico inerte in tutte le proiezioni di voto, ma è anche ormai, di per sé, un politico estremamente impopolare: secondo gli ultimi sondaggi oltre la metà degli americani ha un’opinione negativa di lui, mentre quelli che esprimono un giudizio positivo arrivano a fatica al 40%.
Certamente quella che si annunciava come la campagna elettorale più stanca, ripetitiva e senile della storia americana è appena diventata una delle più singolari e avvincenti, e il fatto che sia destinata a svolgersi su un terreno inesplorato agita probabilmente di più i commentatori europei che gli americani, abituati all’idea dell’ignoto dal tempo del West. “L’America è il più grande esperimento che il mondo abbia mai visto”, diceva del resto Sigmund Freud. Corre però l’obbligo di riportare anche la seconda parte della citazione: “temo, però, che non finirà bene”.
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...ma c’è anche chi lo ringrazia