In ballo miliardi di franchi e la salute, con prospettive che non portano a essere ottimisti. Modificare il modo di produrre energia è un’opportunità
Il costo globale degli eventi meteorologici estremi attribuiti alla crisi del clima ammonta a circa 135 miliardi di euro. A dirlo sono i risultati dello studio “The global costs of extreme weather that are attributable to climate change”, pubblicato sulla rivista ‘Nature’. Il gruppo di ricercatori che lo ha realizzato ha utilizzato una metodologia nota come Attribuzione degli eventi estremi (Extreme event attribution, Eea) per esaminare come le emissioni antropogeniche di gas serra influiscono sul verificarsi di specifici eventi meteorologici estremi.
A partire dall’industrializzazione iniziata nel 19° secolo, i quantitativi di gas a effetto serra nell’atmosfera prodotti dalle attività umane sono in continuo aumento. I motivi principali sono l’utilizzo dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale), come pure l’agricoltura intensiva, la scomparsa delle grandi foreste e delle paludi, il cambiamento dell’uso del suolo. Negli ultimi 150 anni, ad esempio, il contenuto di anidride carbonica nell’atmosfera è aumentato di quasi il 50%, ossia da circa 280 ppm (particelle di Co2 per milione di molecole di aria) a 419 ppm (stato gennaio 2023).
Una stima dei costi dei cambiamenti climatici è generalmente difficile da fare ed è suscettibile di notevoli incertezze a causa dei numerosi fattori che possono influenzarli e del lungo orizzonte temporale. Ciò vale in particolare se si tratta di stime su piccola scala. Un approccio diffuso per esprimere le conseguenze economiche dei cambiamenti climatici è quello dei cosiddetti costi dell’inazione. Già nel 2006, l’economista Nicholas Stern aveva denunciato che, senza fare nulla per arginare i cambiamenti climatici nei prossimi due secoli, i danni per l’economia mondiale sarebbero equivalsi a una riduzione annua del Pil globale tra 5 e 20 punti percentuali. I costi per stabilizzare le emissioni su un livello collegato a un riscaldamento massimo di 2 gradi si limitano ad appena il 2% annuo del Pil globale.
Anche l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) conferma in un suo rapporto sulle conseguenze economiche dei cambiamenti climatici che i costi dell’inazione sono di gran lunga superiori a quelli dell’azione. In uno scenario di cambiamenti climatici incontrollati, prevede fino al 10 per cento di perdita del Pil globale entro il 2100 (cfr, Ocse 2015).
I costi dei cambiamenti climatici sono comunque già oggi considerevoli. Nel 2010, i danni subiti nell’Unione europea da infrastrutture critiche e in settori direttamente coinvolti hanno superato i 3 miliardi di euro e negli anni seguenti il conto è sempre stato elevato. Entro il 2050 potrebbero sestuplicarsi ed entro il 2100 decuplicarsi se non si riuscirà a contenere efficacemente i cambiamenti climatici (Unione europea 2016).
Per la Svizzera sono disponibili poche informazioni quantitative in materia. Il Politecnico di Losanna ha studiato gli effetti dei cambiamenti climatici su sei settori selezionati (salute, edifici e infrastrutture, energia, approvvigionamento idrico, agricoltura, turismo) e ha calcolato i costi derivanti da un riscaldamento più o meno contenuto rispetto al limite di 2 °C. In base a questa analisi, nel 2060 i costi risulteranno aumentati complessivamente di 2,8 miliardi di franchi, per esempio come conseguenza del calo della produttività o delle perdite subite dal turismo invernale (Epfl 2017). Un altro studio (Vöhringer) ha stimato le perdite in termini di benessere in Svizzera indotte dai cambiamenti climatici in una forchetta tra lo 0,37 e l’1,37 per cento del Pil. A più lungo termine, ossia sino alla fine del secolo, il Pil svizzero potrebbe subire un calo fino al 12 per cento se l’attuale andamento delle emissioni globali prosegue incontrollato (Kahn).
Intervenire sui cambiamenti climatici ha, invece, costi molto inferiori. L’attuazione del pacchetto di misure secondo la revisione totale della legge sul Co2 dovrebbe avere un impatto solo minimo sulla crescita economica. Se fossero considerati anche gli effetti positivi delle misure (per esempio gli incentivi all’innovazione oppure la minore spesa sanitaria), i vantaggi macroeconomici potrebbero superare i costi diretti del pacchetto di misure (Ufam. Fonte: I cambiamenti climatici in Svizzera, 2020).
Le emissioni globali di gas serra dovrebbero aumentare del 50%, soprattutto a causa di una crescita del 70% delle emissioni di Co2 legata all’energia.
La concentrazione atmosferica di gas serra potrebbe raggiungere le 685 parti per milione (ppm) di Co2 equivalenti entro il 2050. Di conseguenza, si prevede che la temperatura media globale sarà di 3-6 gradi Celsius al di sopra dei livelli preindustriali entro la fine del secolo, superando l’obiettivo concordato a livello internazionale di limitarla a 2 gradi Celsius.
Le azioni di mitigazione dei gas serra promesse dai Paesi negli accordi di Cancun alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici non saranno sufficienti a impedire che la temperatura media globale superi la soglia dei 2 gradi Celsius, a meno che non si realizzino riduzioni delle emissioni molto rapide e costose. Il clima e le temperature registrate in questi ultimi due anni lasciano intravvedere come sarà il nostro futuro senza cambiamenti importanti; temperature in continuo aumento (in Svizzera abbiamo superato la soglia critica dei 2 gradi), eventi meteorologici sempre più estremi e intensi, costi sociali ed economici crescenti.
Ha senso dal punto di vista ambientale ed economico. L’Outlook dell’Ocse suggerisce che una tariffazione globale del carbonio sufficiente a ridurre le emissioni di gas serra di quasi il 70% nel 2050 rispetto allo scenario di riferimento e a limitare le concentrazioni di gas serra a 450 ppm rallenterebbe la crescita economica di soli 0,2 punti percentuali all’anno in media. Ciò costerebbe circa il 5,5% del Pil mondiale nel 2050. Un costo che non ha nulla a che vedere con il costo potenziale dell’inazione sui cambiamenti climatici, che secondo alcune stime potrebbe raggiungere il 15% del consumo medio mondiale pro capite.
Nel 2012 le persone che lavorano nel settore delle energie rinnovabili erano 13,7 milioni (il 41% in Cina). Nel 2020 il 24% del totale dei lavoratori dell’Ue attivi in questo settore era impiegato nelle pompe di calore (318mila posti di lavoro), seguito dal 22% per i biocarburanti (238mila posti di lavoro) e dal 21% per l’energia eolica (280’400 posti di lavoro), mentre circa 1,3 milioni di persone lavoravano direttamente o indirettamente nel settore.
Secondo un rapporto del Consiglio federale la domanda di impieghi nel settore delle energie rinnovabile è elevata e crescente. Quasi 500mila lavoratori sono necessari per raggiungere gli obiettivi della strategia energetica 2050, mentre gli investimenti sono valutati a 1’400 miliardi di franchi.
Contrastare il cambiamento climatico non è più solo una strategia “estremista” ma è anche un’opportunità per creare posti di lavoro interessanti e investimenti redditizi. Questo aspetto dovrebbe interessare anche ai negazionisti o agli scettici. In fondo, anche ammettendo che l’allarme sui cambiamenti climatici è eccessivo, modificare il nostro modo di produrre energia è un’opportunità economica (volendo metterla in questi termini) che vale la pena di sfruttare. Purtroppo le recenti decisione di revisione del Green Deal dell’Unione europea, non lasciamo molti spiragli di speranza.