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Ipocrisia e Preventivo

Il già consigliere di Stato Pietro Martinelli interviene dopo le discussioni della scorsa settimana in Gran Consiglio

Pietro Martinelli
(Ti-Press)

La discussione in Gran Consiglio sul Preventivo 2024 è stata caratterizzata, a mio parere, da un uso generalizzato, da parte della maggioranza, dell’ipocrisia. Di quella “ipocrisia democratica” che Leonard Mazzone (nato nel 1984, filosofo che si occupa di ricerca sociale e politica presso l’Università di Milano), in uno scritto pubblicato da ‘Micromega’ nel gennaio del 2021, aveva anche definito “il più socievole dei vizi”. Ipocrisia giustificata come “inchino del vizio alla virtù”, come “vizio inevitabile”, come via d’uscita alle difficoltà della politica “che risulti meno onerosa dell’ideologia e meno rassegnata del cinismo”. Ipocrisia che permette di “non dire quello che si pensa” o “di non fare quello che si dice”.

D’altronde anche oggi l’ipocrisia della politica caratterizza il panorama nazionale (pensiamo ai discorsi sulla neutralità e sull’esercito), europeo (pensiamo alle migliaia di annegati nel Mediterraneo per soccorsi negati o intralciati), e mondiale (pensiamo agli atteggiamenti altalenanti verso gli ucraini che muoiono per difendere valori che sono anche nostri e che anche da noi verrebbero minacciati da una vittoria dell’aggressore Putin, o alla risposta disumana di Israele al massacro disumano compiuto da Hamas il 7 ottobre). In definitiva credo che l’ipocrisia sia un elemento fondante della politica. A non sopportare l’ipocrisia, ha ricordato recentemente Papa Francesco, era Gesù (“i sepolcri imbiancati, bianchi di fuori e marci di dentro”). Ma Gesù non era un politico!

Tornando al nostro Preventivo 2024 è, ad esempio, ipocrita affermare che risparmiare 80 milioni su più di 4 miliardi dovrebbe essere facile perché si tratta di meno del 2% della spesa, quando, almeno i membri della Gestione, dovrebbero sapere che i 4 e rotti miliardi sono la spesa lorda mentre l’importo sul quale si può intervenire è poco più della metà. Dalla spesa lorda andrebbero infatti tolte le imputazioni interne (partite di giro), i contributi da riversare, le spese vincolate dal diritto superiore (impegni verso terzi assunti nel passato) e computato solo l’importo netto di spese che generano entrate.

È ipocrita affermare che a determinare i deficit, giustamente definiti pericolosi, della gestione corrente è stata l’esplosione delle spese quando si sa che l’unica crescita consistente riguarda i “trasferimenti” (che sono poi i sussidi), quando si sa che i sussidi sono cresciuti anche perché siamo un Cantone “povero”, dove il livello degli stipendi è del 20% inferiore a quello medio svizzero per cui la spesa sociale è elevata, e quando si sa che tutti i Cantoni con un'importante presenza di frontalieri (Basilea Città e Campagna, Ginevra, Giura, Neuchâtel, Vaud) hanno un onere fiscale massimo prossimo o superiore al nostro.

Evidentemente queste conseguenze non sono responsabilità dei frontalieri che abbiamo chiamato e ai quali va tutto il nostro rispetto e tutta la nostra gratitudine per i servizi che garantiscono, anche in settori delicati come la sanità e per la vita di sacrifici che affrontano. Tuttavia, essere il Cantone con la più alta percentuale di frontalieri ha un importante costo per lo Stato. In sussidi erogati come conseguenza dei bassi stipendi, in strade e in costi ambientali dovuti all’esternalizzazione del traffico e dell’economia stessa.

Infine, è ipocrita sventolare lo spauracchio degli aumenti di imposta (mai finora né proposti, né ipotizzati), mentre si sa che tutte le operazioni sulle imposte fatte in Ticino in questo secolo, compresa l’ultima, quella spudoratamente solo a favore dei milionari (dove, fortunatamente, è pendente un referendum) sono stati degli sgravi. Sgravi per centinaia di milioni di franchi che hanno destabilizzato le finanze cantonali. Sgravi fatti per favorire quella “economia a rimorchio” basata non sulla forza e le capacità del nostro tessuto economico, ma sui vantaggi di posizione e dalla quale si era dichiarato nel passato di volere uscire (vedi le Linee direttive del 2015) dopo che era diventata evidente la flessione del settore bancario ticinese.

Sgravi che – in particolare nel Luganese – sono funzionali a quel sogno (segreto?) di una parte importante della classe dirigente locale di avere uno Stato minimo (vedi “Libro bianco” del prof. Carlo Pelanda del 1998, ma anche l’articolo del prof. Carlo Lottieri sul “Mattino” di domenica scorsa) e di diventare una “grande Montecarlo”. Si riducono le entrate affinché il Cantone sia costretto a ridurre i suoi campi di attività: dalla sanità, alla formazione, dalla difesa dell’ambiente alla stessa socialità alla quale ci penserebbe la carità privata.

Oggi chi rifiuta questo “sogno” chiede, giustamente, una analisi e delle proposte di controllo sistematico della spesa pubblica. Chiede qualcosa che richiama vagamente la famosa “riforma dell’amministrazione” della fine del secolo scorso. Il Consiglio di Stato eletto nel 1999 abbandonò la direzione operativa di quella riforma, e riforme strutturali di quel genere muoiono se alla loro testa non c’è direttamente il potere politico esecutivo. Nel nostro caso se non c’è direttamente e personalmente uno o più Consiglieri di Stato che abbia/abbiano la fiducia di tutto il Governo e la fiducia dell’Amministrazione. È importante tenerlo presente affinché, qualsiasi riforma si intraprenda, non sia ancora “flatus voci”. Desiderio incapace di incidere sulla realtà.

Non sia una nuova “ipocrisia”.

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