Punto di riferimento per l’educazione inclusiva e la pedagogia speciale, Michele Mainardi ha recentemente lasciato il suo incarico alla Supsi
Un punto di riferimento per l’educazione inclusiva e la pedagogia speciale in Ticino e non solo. Michele Mainardi, classe 1957, dottore in pedagogia specializzata e direttore del Dipartimento formazione e apprendimento (Dfa) dal 2012 al 2017, ha concluso la sua lunga carriera alla Supsi lo scorso 6 dicembre con una lezione magistrale sul tema dell’inclusione scolastica, oggetto di studio privilegiato nella sua ricerca. Alle spalle una lunga esperienza accademica nel ruolo di docente universitario e ricercatore. Durante la sua partecipazione attiva nella scuola pubblica ticinese, Mainardi, contemporaneamente all’attività accademica, è stato capogruppo del sostegno pedagogico delle scuole comunali, ispettore dell’insegnamento speciale, formatore e vicedirettore alla Scuola magistrale. Negli anni ha collaborato con molte istituzioni universitarie nazionali e internazionali curando anche il monitoraggio e la valutazione di organizzazioni educative e socio-educative, nonché di servizi sociali. Abbiamo ripercorso insieme parte delle principali tappe della sua carriera e raccolto alcune sue considerazioni sulla pedagogia speciale e sulla scuola.
Con quali sentimenti ha lasciato il suo incarico alla Supsi?
Mi commiato dalla Supsi come accademico interno, rimanendole però certamente vicino e riconoscente. Difficile provare altri sentimenti. Vivo la Supsi sin dalla sua fondazione nel 1997. Dagli anni novanta a oggi la scuola universitaria è passata da progetto in divenire a una realtà affermata e irrinunciabile del polo accademico della Svizzera italiana. Penso che da questo punto di vista sia bello poter guardare indietro e vedere oggi questa stupenda realtà e poter pensare di averne condiviso gli sviluppi. Per il resto, sui temi che mi accompagnano da una vita c’è immutato interesse. Vedo un’analogia con il musicista: non è perché è al beneficio della pensione che smette di suonare ma continua perché non può farne a meno.
Lei è considerato da molti un punto di riferimento per l’educazione inclusiva e la pedagogia speciale in Ticino ma non solo, da dove nasce questo interesse?
Nasce casualmente. La mia formazione iniziale è scientifica. Poi, un po’ per caso, ho iniziato ad avvicinarmi a una realtà che mi era sconosciuta fatta anche di persone per certi versi segregate, invisibili. Non ero evidentemente il solo a provare dei sentimenti. Associazioni quali l’Atgabbes (l’Associazione ticinese genitori e amici di bambini bisognosi di educazione speciale, ndr) da alcuni anni stavano attirando l’attenzione dell’opinione pubblica su questi temi imprimendo forza alla trasformazione culturale in atto. Ho iniziato con degli stage. Man mano che mi addentravo nel mondo degli istituti educativi, crescevano in me la voglia e la necessità di approfondimento. Nel corso degli studi e della professione circostanze fortunate mi hanno fatto incontrare persone ed esercitare funzioni che mi hanno introdotto alla pedagogia speciale, ai retroscena della gestione istituzionale e alla cultura universitaria valorizzando l’apporto dell’attenzione simultanea al terreno e all’università.
A livello personale che cosa le ha portato questo suo impegno?
Mi ha costretto a sviluppare degli sguardi, a scoprire delle prospettive, a confrontarmi con le persone prima che con i deficit, a scoprire quanto le diversità possono racchiudere. L’attenzione rivolta all’infanzia con disabilità in ambito educativo, così come l’interesse alla qualità di vita negli adulti, è stata per me uno stimolo alla ricerca e una fucina di evidenze nascoste. Lo studio di specifiche realtà nei loro rapporti con altre mi ha aiutato a vedere, a scuola come in qualsiasi altro ambiente, degli effetti di contesto altrimenti invisibili o sottovalutati: il possibile apporto cumulativo, al di là del deficit, di difficoltà aggiuntive o di discriminazione. Effetti presenti in altre forme anche in altre situazioni e in altri contesti.
Qual era la situazione della pedagogia speciale quando ha iniziato a occuparsene?
Dal punto di vista della disciplina si trattava di una pedagogia speciale molto attenta al deficit e meno alla persona. Il paradigma medico stava però cedendo il passo a nuovi sviluppi che mettevano la priorità sui diritti umani e sullo studio delle pari opportunità. Senza rinunciare alla conoscenza di deficit e disturbi evolutivi, la pedagogia speciale si dà dei nuovi principi ponendo al centro delle sue attenzioni la condizione specifica della persona e del mondo in cui si trova a vivere. Se fino ad allora la pedagogia speciale era quasi automaticamente associata a dei luoghi speciali – scuole, istituti –, sempre più il contesto di appartenenza cui mirare è quello comune a tutte le persone. Anche nella scuola questa seconda anima della pedagogia speciale stava prendendo ovunque più forza e senso. In questo processo il Ticino, a livello nazionale, è stato un precursore lungimirante e un acuto realizzatore.
Cos’è cambiato negli anni?
Agli esordi dell’istituzionalizzazione dell’educazione speciale le attenzioni speciali in Svizzera nascono sotto forma di classi separate anche per questioni legate al finanziamento federale delle misure educative speciali: di fatto un incentivo alla separazione. Quasi in contemporanea, sulla spinta di chi sostiene culture più legate all’integrazione emergono volontà di ricercare soluzioni diverse e più coerenti con i proclami della scuola. Qui la storia del nostro cantone merita grande considerazione per il senso civico e la determinazione posti nel contenere la segregazione e nel predisporre condizioni e soluzioni capaci di contrastare la facile deriva indotta dal fondo di finanziamento. Le scelte operate e quanto realizzato hanno permesso al Ticino di essere un primattore riconosciuto della cultura dell’integrazione sul piano svizzero. Come illustrato nella lezione di commiato, è a partire dai richiami delle Nazioni unite che molti Cantoni hanno accelerato lo sforzo generale in favore di una maggiore inclusione scolastica. Questo elemento non è da sottovalutare nel suo impatto sul processo in corso e che si esprime nell’impegno di educare e di formare tutti gli allievi e tutte le allieve in ambienti scolastici comuni, capaci e usuali.
Quali sono secondo lei le difficoltà per raggiungere questo punto di arrivo?
Molto della pedagogia speciale è diventato patrimonio della cultura generale e della scuola regolare. La pedagogia speciale interessa una varietà di persone con precise caratteristiche confrontate a situazioni comuni che ancora non consentono loro di beneficiare, così come sono, di tali situazioni. I contesti scolastici devono poter disporre delle competenze necessarie a cogliere le condizione di svantaggio, la privazione, la discriminazione e porvi attenzione, analogamente a quanto si fa per qualsiasi altro allievo e altra allieva per accoglierla e considerarla in attività di classe di qualità per ognuno degli allievi. Questo pone almeno un problema di principio e uno di metodo. Il problema di principio è relativo alla ripartizione o meno dei compiti fra figure professionali diverse. Quello di metodo interessa invece la via che si adotta per sfruttare al meglio risorse e competenze presenti in classe e in sede.
Riunire queste figure in una classe non è sicuramente a costo zero, la preoccupano i tagli previsti dal preventivo 2024?
Oggi in Svizzera la media degli allievi separati è circa del 3% e va da un minimo inferiore appena sotto l’1% a un massimo superiore vicino al 6%. Il nostro cantone, dal 1982 a oggi ha toccato una sola volta il 2% ed è sempre stato significativamente sotto alla media nazionale mentre altri hanno superato il 10%. Questo per dire che in Ticino l’evoluzione verso una scuola inclusiva può contare su una cultura scolastica conclamata e dagli ottimi risultati riscontrati alle prove scolastiche internazionali Pisa. Da questo punto di vista il Ticino ha senza dubbio ragione nel perseguire la sua linea di sviluppo. Detto ciò, i tagli preoccupano se vanno a scapito di qualcosa o di qualcuno. Qualsiasi taglio va considerato nei suoi effetti e nel suo rapporto con la realizzazione delle condizioni di qualità ricercate per le allieve e gli allievi della nostra scuola e questo evidentemente è un fatto che non può lasciare indifferenti.
Lei è stato anche direttore del Dfa dal 2012 al 2017, come valuta quegli anni?
Il passaggio dell’alta scuola pedagogica alla Supsi caratterizzante il mio mandato è stato in qualche sorta un acceleratore del processo di accademizzazione dell’Istituto di formazione dei docenti. Uno degli aspetti peculiari di questo processo è stato il cambiamento di prospettiva richiesto ai docenti e alle docenti della struttura. Rispetto allo statuto unico, quello di docente, la Supsi prevedeva già allora la differenziazione di figure accademiche chiaramente distinte e di un corpo intermedio. Oltre a questo, la ricerca, la formazione di base e la formazione continua, per citare solo i mandati principali, avrebbero dovuto caratterizzare tali profili. Si tratta di condizioni ampiamente riconosciute e di dimensioni accademiche che favoriscono la qualità, il confronto e la visibilità, e che evitano l’autoreferenzialità e la sedentarietà scientifica. Da questo punto di vista sono stati degli anni molto impegnativi che ci hanno però visti riconosciuti senza riserve come dipartimento e come alta scuola pedagogica anche in seno a swissuniversities, gremio che accoglie i politecnici, le università, le scuole professionali e le alte scuole pedagogiche della Svizzera.
Come sta la scuola ticinese oggi e qual è il suo ruolo nella società?
La scuola è una grossa e importante istituzione che ha delle funzioni e delle responsabilità che le vengono riconosciute e richieste. Quella ticinese a mio avviso sta bene. Lo dico in considerazione di quanto sa dimostrare anche nei confronti intercantonali e internazionali. Come tutte le scuole oggi anche quella ticinese si trova confrontata con agenzie educative e conoscitive concorrenti e contrastanti. I media, i social, le app… con la facilità di accesso a qualsiasi informazione, le alternative alla memorizzazione delle conoscenze, la frammentazione e la delega del sapere – si veda l’intelligenza artificiale – sono a mio avviso oggi più che mai in passato, delle forze che incidono, interferiscono, si sostituiscono con il fare scuola e rendono certo più complesso e complicato il rapporto della scuola con i giovani e con l’essere ragazzi e ragazze oggi. Riuscire a rimanere l’agenzia educativa principale è secondo me una sfida che sta mettendo e metterà alla prova nei prossimi anni tutta la scuola.