I graduati di Kiev lamentano le poche rotazioni e gli stratagemmi che permettono a molti di evitare il fronte: ‘Sabotatori e imboscati, è come il Vietnam’
Oletsky è paramedico nel 68° battaglione di difesa territoriale Transcarpathia. La stragrande maggioranza dei soldati della sua compagnia arriva dall’estremo Ovest del Paese. Parla perfettamente italiano, ha vissuto anni in Italia lavorando nel turismo. Prima dello scoppio della guerra faceva parte di una organizzazione paramilitare chiamata Legione Ucraina. Il loro scopo era prepararsi militarmente a uno scontro con la Russia, considerato prima o poi inevitabile.
Da molti erano considerati catastrofisti ed esaltati, ma hanno avuto ragione. La Russia ha invaso il loro Paese. Dal 24 febbraio 2022 è stata una delle organizzazioni che hanno addestrato centinaia di migliaia di civili a Kiev e in altre località del Paese. Il 68° è stato impiegato a Bakhmut nei mesi più caldi, da novembre a febbraio 2022. Ora si trova a nord di Kiev, nella regione di Sumy. Il battaglione di Oletsky è formato interamente da volontari, ma molto è cambiato dall’inizio della guerra. Degli uomini presenti in quel periodo ne sono rimasti meno della metà. “Sapete quanti soldati dovrebbe avere una compagnia? Intorno al centinaio. Sapete quanti ne ho io? Venticinque, e con quelli devo controllare una porzione di confine lunga diversi chilometri”, racconta il comandante di compagnia Olekander, nickname ‘Machado’.
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Bombardamenti sulla linea del fronte
Il colonnello è l’unico militare di professione della sua unità. In pensione dal 2010 dopo una lunga carriera nell’Armata Rossa e poi nell’esercito ucraino, nel 2015 si è arruolato come volontario per combattere i separatisti in Donbas. Il 24 febbraio 2022 è rientrato, come tanti, nuovamente nelle forze armate contro i russi.
Davanti a una birra e a una pizza si può parlare liberamente, guardandosi negli occhi. Ci sono cose che non vanno, lo sanno tutti, nella catena di comando ucraina. E spesso ci sono incomprensioni tra la dirigenza politica e quella militare. “Per colpa di decisioni irrazionali ho perso tanti uomini validi. Ma nessuno ne risponderà. Almeno non adesso. Non abbiamo avuto rotazioni dal fronte per mesi. E non è un problema solo di morti e feriti e, credeteci, ne abbiamo avuti in quell’inferno che è stato Bakhmut. Adesso si è aggiunta anche una legge nazionale: se puoi dimostrare di doverti prendere cura di qualcuno, anche una vecchia zia inferma che non hai mai visto, vieni dispensato dal servizio militare. E tanti ne hanno approfittato per chiudere con l’esercito”.
Non è il primo ufficiale che dice le cose come stanno e non sarà l’ultimo. Nella sala di questa villetta dove ci incontriamo, alla periferia di Hlukhiv, una volta luogo di relax e comunione di una famiglia che ora è andata via, lontano, ci sono casse di granate, armi, munizioni, droni. “Qui sembra di stare in Vietnam”, dice il colonnello. “Il problema maggiore che abbiamo sono le infiltrazioni di sabotatori russi che attaccano civili e soldati. Proprio in queste ore stiamo dando la caccia a un loro gruppo”. Il comandante mostra sul cellulare la fotografia di una macchina militare con le portiere spalancate in mezzo a un bosco. “Hanno ucciso due dei nostri, un’imboscata. Li abbiamo inseguiti e circondati, ma non siamo ancora riusciti a catturarli perché l’artiglieria russa continua a bombardare tutto intorno. Ma è solo questione di tempo. Entrano nel nostro territorio e uccidono chiunque. La scorsa settimana hanno sparato al camion che raccoglie il latte nelle fattorie qui intorno, ammazzando l’autista”.
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I nemici colpiti con le freccette
In mezzo a campi, boschi e distese di prati verdi, il confine con la regione di Belgorod è costellato di piccoli villaggi agricoli in parte disabitati. Case di legno, la chiesa, i contadini che si muovono con carretti trainati da cavalli. Oletski ha comprato in Inghilterra, tramite crowdfunding, un mezzo blindato per il suo battaglione e l’ha fatto trasformare in un’ambulanza. La sua compagnia ha anche un Kozak-2, un blindato leggero di fabbricazione ucraina, qualche pezzo d’artiglieria e mortai. Niente altro. Anche la squadra droni, formatasi su iniziativa del colonnello ‘Machado’, è completamente autofinanziata attraverso donazioni di privati. “Senza l’aiuto della società civile non so come avremmo fatto”.
Ci sono uomini e donne che dopo quasi due anni di guerra ancora continuano a investire il loro tempo e i loro soldi per sostenere i militari. Come Darya e le sue amiche, che a Sumy insieme ad altri volontari comprano indumenti e preparano equipaggiamento per i soldati della loro città, ora in Donbas a combattere.
Darya ha appena attivato una sottoscrizione pubblica finalizzata ad acquistare un visore termico per una unità delle forze speciali. Yulia, la più anziana del gruppo, 65 anni, confeziona reti mimetiche e tute da cecchino. Victoria prepara scaldini per l’inverno miscelando reagenti chimici e sciogliendo cera in pentoloni per realizzare candele artigianali che saranno poi usate per scaldare le vivande in trincea.
A Oletski alla fine non dispiace rimanere nella regione di Sumy con il battaglione. La paga è ridotta rispetto ad altre zone, ma lo è pure il rischio di morire.
Altri se la passano peggio, come nella regione di Kharkiv, vicino a Kupyansk, dove i russi hanno ammassato decine di migliaia di uomini e mezzi nel tentativo di effettuare una sanguinosa controffensiva. Andriy Kanashevich è il capo dell’amministrazione del distretto militare della città. Kanashevich è una figura di coordinamento tra i militari e l’amministrazione civile e sta gestendo l’evacuazione di numerosi abitanti dai villaggi presenti nelle zone di combattimento. “La situazione è un po’ complicata. L’esercito russo sta attuando delle controffensive nell’area. Non stanno portando solo attacchi con la fanteria ma usano pesantemente l’artiglieria e ogni altro mezzo a loro disposizione. Stanno colpendo non soltanto le nostre linee, ma anche case e edifici industriali. L’ultimo bombardamento qui in città è avvenuto l’altro giorno, con tre civili feriti. E altre bombe hanno colpito il paese di Dvorichna, ferendo un ventunenne. Anche in questo momento ci sono bombardamenti: abbiamo appena ricevuto la notizia di un altro civile ferito. Principalmente colpiscono con bombe aeree e artiglieria”.
Le bombe aeree sono le famigerate Fab-500, ordigni imprecisi ad alto potenziale e le ‘glide bomb‘ (bombe plananti), in grado di percorrere in aria una traiettoria maggiore rispetto a quella di una bomba a caduta libera. Ma vengono utilizzati anche missili, come gli Iskander. Uno di questi ha colpito lo scorso cinque di ottobre il villaggio di Groza, vicino a Kupiansk, uccidendo 59 persone. Donne, uomini e bambini che stavano partecipando a un funerale.
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L’abbraccio davanti a un memoriale per i caduti
“Come avrete intuito, muovendovi oltre Kupyansk, la situazione è difficile e quello che la rende ancora più problematica è che la popolazione civile non vuole essere evacuata. Non possiamo portare via a forza la gente dalle loro case. Non abbiamo gli strumenti legislativi per farlo. Sono adulti, sanno quello che sta avvenendo. Li abbiamo avvisati, abbiamo mandato personale per evacuarli, ma non vogliono andarsene. C’è un villaggio che è esattamente nel mezzo della zona di combattimento e lì ci sono ancora diciotto persone e non c’è verso di farle muovere. Per legge, quindi, non possiamo mandarli via con la forza ma se stiamo parlando di minori, invece, la storia cambia. Anche se le famiglie non vogliono, siamo autorizzati a prenderli e a metterli al sicuro”.
A Petropavlivka, poco dopo Kupyansk, le strade deserte vengono percorse solo da mezzi militari che sfrecciano veloci. Le due stazioni di servizio ai lati sono completamente distrutte. Sotto quello che rimane del tetto, due ambulanze sostano in attesa di caricare i feriti che arrivano dalla prima linea. È tutto abbandonato, distrutto. Il paesaggio è desolante. Il silenzio viene interrotto solo dalle esplosioni dei colpi di artiglieria. Sbuca un uomo in bicicletta, diretto verso il vicino villaggio di Synkivka. Qui un edificio in costruzione, forse una scuola, è stato colpito. Detriti e pezzi di metallo sono sparsi ovunque intorno a un cratere enorme.
“È successo stanotte. Un rumore tremendo ci ha svegliato verso le tre del mattino. Pensavo cadesse la casa”, dice una signora che abita a una cinquantina di metri dall’edificio colpito dai russi. Racconta che lei e il marito se ne erano andati via qualche mese fa, durante i combattimenti che avevano portato gli ucraini a riprendere buona parte della regione di Kharkiv. Erano andati in Russia, da dei loro parenti. Ma ora sono tornati e dicono che da qui, qualsiasi cosa succeda, non se andranno più.
A Dnipro continua a piovere. Una pioggia incessante, che non dà tregua sia nelle città che fuori, nelle campagne, dove le strade dissestate fatte di terra diventano laghi fangosi e i terreni nei campi impantanano uomini e mezzi. Significa, per gli ucraini, la fine della controffensiva di terra. Le gocce di pioggia ticchettano sulla lamiera delle grondaie cadendo poi sui tavolini in ferro del bar dove Andrii sta aspettando sua moglie. È appena arrivata dalla Polonia solo per stare qualche giorno con lui, visto che è in licenza. Poi ripartirà. “Che pensa di tutto questo? È stanca, vorrebbe che la smettessi di combattere. Pensa che io abbia già fatto il mio dovere, che è ora che io recuperi la mia vita con lei e con i miei due figli. Il tempo che non abbiamo potuto passare insieme. Il tempo che non ho visto il mio secondo figlio crescere. Ma non è possibile adesso, non ora. Ci sarà un momento in cui potrò farlo”.
Andrii è dimagrito, s’è rimesso in forma da quando è entrato nella 47ª brigata meccanizzata, una delle unità di élite dell’esercito. Ha passato mesi sotto Zaporizhzhia, sulla linea del fronte, insieme alla sua unità di ricognitori. Sono stati loro che hanno inferto violentissimi colpi ai russi nel tentativo di sfondare le loro linee difensive. E sono gli stessi che, mandati adesso ad Avdiivka, in Donbas, con le loro unità droni e la loro artiglieria, hanno devastato mezzi ed equipaggiamenti neutralizzando migliaia di soldati di Mosca. “Dall’alto, tramite i droni, li vedevamo scavalcare i loro morti, schiacciarli letteralmente salendovi sopra mentre uscivano dalle trincee e poi morire a loro volta poco più avanti. E così giorno dopo giorno, ondata dopo ondata. Come in quei film della Prima Guerra Mondiale o nei racconti dei soldati dell’Armata Rossa, mandati come muraglie umane contro i nazisti. Nessuno poteva arretrare, nessuno poteva ritirarsi. Se ci provavano, venivano uccisi dai commissari politici. Adesso fanno la stessa cosa”. Questa è una guerra che è diventata di posizione. Le due forze si equivalgono. Non si avanza e non si arretra. Uno stallo dove gli ucraini, numericamente inferiori, riescono a pareggiare utilizzando tecnologie e armamenti più moderni di quelli utilizzati da Mosca. Ma la stanchezza si fa sentire. Tutti sono stanchi, è fisiologico.
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Anche il cibo scarseggia in alcuni reparti
“Guardati intorno. Sembra tutto normale. La gente è fuori a bere, si vede con gli amici, continua la sua vita. Ma c’è chi sta dall’altra parte e che ancora aspetta di essere liberata, che crede nel nostro esercito. Cosa facciamo con loro? Li lasciamo lì?”.
Chi può, chi se la sente, chi ha il coraggio, cerca di scappare con ogni mezzo dai territori occupati da Mosca. Come Alexander, Irina e tanti altri che sono passati attraverso l’unico posto di confine ancora aperto tra Russia e Ucraina. È quello di Kolotylivka-Pokrovka, tra la regione russa di Belgorod e quella ucraina di Sumy. Una strada in mezzo ai boschi. Da qui ogni giorno transitano almeno un centinaio di persone in fuga dai russi. Molti vengono dal Sud dell’Ucraina, dalle regioni di Kherson e di Zaporizhzhia e spesso raggiungono familiari e parenti che si trovano a pochi chilometri di distanza da dove sono partiti.
Katryna Arisoi è la fondatrice di Pluriton, l’organizzazione che si occupa di aiutare queste persone dando loro assistenza psicologica, legale e umanitaria.
“Li aiutiamo a tornare in Ucraina. Li incontriamo al confine dopo che hanno superato i campi di filtrazione, dove vengono controllati dai servizi di intelligence russi e dopo che hanno superato la zona grigia, li accogliamo fornendo loro un posto dove riscaldarsi, mangiare, avere un supporto medico e psicologico. Aiutiamo le persone a trovare un alloggio, registriamo le famiglie per ricevere assistenza in denaro e dai servizi sociali. Molti arrivano qui senza documenti e provvediamo a farglieli subito riavere”. È un luogo di transito temporaneo per chi ha fatto un viaggio durato tre giorni, per chi ha fatto migliaia di chilometri con la speranza di poter riuscire a passare l’ultimo tratto che li separa dalla libertà. Molte, di quelli arrivati alla spicciolata durante la giornata, intirizziti dal freddo e dalla pioggia che continua a cadere senza sosta, sono donne. E poi anziani, bambini e qualche adolescente. All’interno della struttura le persone, in fila, attendono di essere chiamate dai poliziotti. Vengono fotografate e registrate, poi in un’altra stanza vengono controllati i bagagli. Il tempo di fermarsi, cambiarsi gli abiti bagnati, e poi ripartire per Sumy, dove si trovano i treni che vanno verso Kiev e Kharkiv.