La scrittrice luganese, Gran Premio svizzero di letteratura 2018, scomparsa ieri ad Aarau, lascia una originale geografia sentimentale
Ritorniamo – “Star via di casa, in viaggio, quel tanto che tornando, i fiori nel vaso non siano ancora appassiti” (da A.F., ‘Venti frammenti’, Alla chiara fonte, 2013)
Dà un senso di dolente vertigine e di disorientamento apprendere che Anna Felder se n’è andata, senza che quell’ultimo treno preveda, com’era sempre stato, un biglietto di ritorno, da Aarau a Lugano.
Sgomenta sapere di non ritrovarla nella sua bella casa luganese di Via Lucchini, ma ancor di più, non poterla più immaginare in Nelkenweg, fra chiodi e garofani, mentre arriva in bicicletta, la gonna sotto il ginocchio appena mossa dall’aria di un pomeriggio autunnale in riva all’Aare, ad Aarau, la città eletta, la città rifugio, per lei che vi ci si era stabilita giovanissima, dopo gli studi letterari a Zurigo, per insegnare lingua e letteratura italiana al Liceo e ai giovani lì approdati dall’Italia nella grande ondata migratoria degli anni 60-70.
La luganese Anna Felder, di madre italiana e padre svizzero (una famiglia importante in riva al Ceresio) ad Aarau è diventata scrittrice ed è diventata madre, dando vita a testi letterari e a una figlia, Caterina, adorata ‘ribelle’ dalla costante e amorevole presenza, dentro il rapporto, complesso, inestricabile, certamente decisivo, con l’uomo, il compagno, il contraltare ma anche la guida spirituale e culturale della sua esistenza; un uomo cui ha consegnato la propria fedeltà profonda e assoluta attraverso l’atto della scrittura, raccontandolo, descrivendolo, dandogli ogni volta una diversa identità ma sempre l’analogo inconfondibile aspetto sin dal primo suo romanzo, uscito nel 1970 a Zurigo, con il titolo ‘Quasi Heimweh’.
Il romanzo è una sorta di ‘caso’, oltre che per l’ottima accoglienza in Svizzera tedesca (uscito a puntate sulla Nzz) anche per il fatto che appare in traduzione prima che in lingua originale. Artefice: il saggista e poeta Federico Hindermann: appunto, lui.
In Ticino, passano due anni e da Pedrazzini a Locarno esce la versione originale, che porta il titolo ‘Tra dove piove e non piove’, recuperando un passaggio del romanzo in cui i due protagonisti (una giovane insegnante e il suo più maturo e affettuoso amico) percorrendo una stradina, saltellano sopra sassi levigati per schivare le pozzanghere. ‘Tra dove piove e non piove’ diviene così anche una metafora, di un’esistenza vissuta tra due realtà, tra due culture; un’esperienza che accomuna Anna Felder e Federico Hindermann nel riconoscersi, reciprocamente e in rapporto al mondo che li circonda, sempre un po’ ‘estranei’, non totalmente ‘omologati’ (nemmeno dall’ufficio di Stato civile).
Dirigente editoriale lui di una importante insegna letteraria zurighese, eppure poeta in italiano, pubblicato dall’italo-svizzero (e milanesissimo) Vanni Scheiwiller; autrice lei, ticinese di Aarau, di un libro (‘La disdetta’) che esce nientemeno che da Einaudi nel ’74 per volontà di Italo Calvino; il loro percorso biografico e letterario è stato spesso segnato da questa sorta di reciproca (e comune) ‘estraneità’ al contesto, che forse proprio in virtù di questa particolare condizione, hanno saputo descrivere e interpretare con grande libertà e con risultati di indiscutibile qualità letteraria.
Anna Felder è stata, ed è, la ‘signora’ della letteratura svizzera di lingua italiana, insignita, fra l’altro nel 2018 del Gran Premio svizzero di letteratura, maestra nel descrivere il mondo (un po’ come Pascal) in una continua ricerca di relazioni assolute fra l’infinitamente piccolo (il minimo dettaglio) e l’infinitamente grande (l’origine, il destino e il mistero di ogni cosa) in testi relativamente brevi, in scene di vita quotidiana, dove a prevalere sono magari i silenzi (o la silenziosa ‘lingua’ del gatto protagonista de ‘La disdetta’); e poi i gesti, gli sguardi, i saluti e i congedi; si pensi, ad esempio alle non poche evocazioni di viaggi in treno, fra il Ticino e l’oltre San Gottardo, con una focalizzazione su un paio di stazioni: Olten, ovviamente (per andare da Aarau a Basilea) e soprattutto quella, quasi mitica (o mitizzata) di Arth-Goldau, dove per definizione “si cambia”, e dove (come in ‘Nati complici’ del 1999) una madre e una figlia approdano per ritrovare un padre, in attesa, che aspetta che la madre scenda e lo raggiunga e poi con lei saluta la figlia, rimasta sul treno che riparte, e la saluta, e la saluta con la mano, all’infinito, fino a diventare, per la ragazza… infinitamente piccolo, un punto all’orizzonte.
Strane complicità (ecco un altro termine centrale nell’opera di Anna Felder) che si manifestano in misteriose, apparentemente banali epifanie fra coppie, o nel ‘cerchio famigliare’ (per evocare l’amato Giorgio Orelli), fra moglie, marito, padre, madre, lo zio, il nonno e… l’assente (sono titoli di capitoli del volume ‘Gli stretti congiunti’ del 1982).
Il tempo e lo spazio prendono in ogni pagina una dimensione diversa, si rinnovano in relazione al singolo oggetto, al movimento, alla parola pronunciata: si rimodulano costantemente nella persuasione che non c’è gerarchia assoluta, e che a tenere assieme, miracolosamente, quell’infinitamente piccolo e quell’infinitamente grande è il fatto che, appunto, sono entrambi analogamente infiniti, eternamente in divenire, sempre nuovi, anche solo per un istante.
Anna Felder, che va ricordato si è laureata sulla poesia di Eugenio Montale, è stata sempre una fedele e colta lettrice di poeti al punto che la sua prosa ha non di rado (come già notava a suo tempo lo stesso Calvino) qualcosa di essenzialmente poetico, evocativo, come frutto di una momentanea quanto estrema sintesi. Una prosa, si potrebbe dire, a volte quasi ‘chirurgica’ anche nel sottilissimo uso dell’ironia, che era anche autoironia e che non ha mai mancato di elargire, generosamente, neanche durante gli incontri conviviali o le cene al grotto.
Il suo passo che sapeva essere deciso quanto leggero, il suo sguardo che poteva apparire severo ed era invece anzitutto attento, teso a dire, anche in silenzio, della sua discreta eleganza, gentilezza e simpatia, il rispetto e la fraterna accoglienza che riservava agli amici, sono i tratti che dalle pagine dei suoi libri si ritrovavano anche nelle cordialissime occasioni di incontro e nelle sue tante domande e curiosità, che non lesinava di esprimere e che riguardavano ogni possibile argomento si potesse sottoporle. Curiosità che, se soddisfatte, incasellava nei cassetti di una memoria davvero rara, mai banale, semplicemente e autenticamente colta.
Anna Felder non c’è più a tracciare, in una sua originale e personale geografia sentimentale, gli invisibili e misteriosi percorsi di persone, piante, animali, che ha raccontato nelle sue splendide pagine; ma se un giorno ancora, come nel racconto ‘Chi mi chiama’ (in ‘Liquida’, 2017) si vedesse passare “in zona pedonale nelle ore di punta, vestita un po’ fuori stagione come chi viene da fuori senza essere turista, se la vedete fermarsi nel va e vieni della gente come chi nella polvere cercasse qualcuno, cercasse nessuno, allora è lei, state sicuri. Marisa”.
O forse, e più probabilmente, è Anna, ma certo, e per sempre.
Per gentile concessione del sito www.naufraghi.ch