Al confine di Ventimiglia fra migranti in transito. La ‘Regione’ ha visitato con l'eurodeputato Carême i luoghi di detenzione alla frontiera francese
Quello che l’eurodeputato stava aspettando era il rumore metallico della serratura che scatta. Dopo qualche trattativa, il “clac” è arrivato e Damien Carême, francese, del Gruppo Verde/Alleanza libera europea, ha potuto entrare nella caserma della Police aux Frontières (Paf) al valico stradale di Ponte San Luigi, fra Ventimiglia e Mentone, dove ogni giorno la Francia restituisce all’Italia i migranti rastrellati lungo la linea del confine. L’obiettivo di Carême era verificare la situazione nei luoghi di detenzione temporanea. Come membro della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, ne avrebbe poi riferito a Bruxelles.
Le altre quattro persone che agli agenti di frontiera potevano apparire come i membri del suo staff, in realtà erano tre giornalisti di France3 e uno della “Regione”. Quando, al controllo dei documenti, la verità è emersa, c’è stato un momento di imbarazzo, che non sarebbe peraltro diminuito nel caso di un rifiuto d’entrata alla stampa nella zona protetta. Così, tutto il gruppo ha potuto varcare la soglia, accedere al primo vano d’accoglienza ospiti, scendere le scale e osservare, nei sotterranei, due celle, in quel momento vuote, pulite e abbastanza spaziose per contenere ognuna quel massimo di tre persone per le quali, stando alla Paf, sono concepite.
Agli inizi di ottobre, 10 anni esatti dopo la tragedia di Lampedusa che aveva causato la morte in mare di quasi 400 persone e il conseguente lancio dell’operazione Mare Nostrum, Carême era intervenuto in commissione sottolineando la «necessità di adottare rapidamente il pacchetto migrazione e asilo». Questo, aveva detto, perché da quel 3 ottobre 2013 sono successe tante cose: «Mare Nostrum non c’è più, Frontex è responsabile della sicurezza delle frontiere esterne e occasionalmente partecipa alle deportazioni illegali. Peggio ancora – aveva aggiunto rivolto al presidente – mentre lei prima diceva che l’Europa è il campione dei diritti umani, le Nazioni Unite hanno recentemente concluso che questa stessa Europa, con il suo accordo con la Libia, è stata complice di un crimine contro l’umanità».
L’eurodeputato aveva anche riflettuto sull’ingiusta e sistematica criminalizzazione delle Ong operanti in mare e parlato di «politica migratoria assassina con più di 28mila morti solo nel Mediterraneo», considerando gli ultimi 10 anni come un periodo «di smantellamento dei nostri sistemi di accoglienza e protezione per gli esuli, di negazione dell’accoglienza e della solidarietà, di calpestamento della legge, di privazione della libertà sullo sfondo della nauseante retorica dell’estrema destra». Pertanto, «la necessità di una riforma non è mai stata così urgente».
E una riforma può partire anche da segnali come un bollino rosso dell’Europarlamento sulle condizioni di detenzione dei migranti bloccati in transito fra Italia e Francia. Ma se era questo che il deputato stava cercando, quel giorno non l’ha trovato. Almeno, non nelle comode rassicurazioni fornite a lui, e alla stampa francese e svizzera, dal capo esercizio della Paf e da due dei suoi più stretti collaboratori. Secondo le loro dichiarazioni la Police aux Frontières «applica solo quello che ordina il Consiglio di Stato» – di fatto, lavandosene le mani di eventuali derive in materia di diritti umani –, «dispone di tutti gli strumenti per capire se chi si dichiara minore lo è veramente» e «accetta domande d’asilo, anche se solo quando presentate da chi al momento del fermo è già in territorio francese». In più, «non mette assolutamente i minori con chi non lo è».
Non una parola, però, su quello che, prima di entrare, tutti noi avevamo potuto osservare attraverso una cancellata dall’esterno del posto di polizia: il cortiletto in cui migranti di ogni età e provenienza erano ammassati, venendo rilasciati alla chetichella con un foglio d’espulsione in mano per attraversare a piedi il Ponte San Luigi e dirigersi, per registrazione, all’adiacente posto di polizia italiano. E nemmeno una parola in più di quanto già si sapesse sul rifiuto d’entrata sistematico applicato dalla Francia, che prevede la consegna ai “sans papiers” di un formulario con due opzioni: la prima è la richiesta di un termine di 24 ore per l’esecuzione della misura, mentre la seconda un’esplicita richiesta di espulsione immediata.
Secondo l’Associazione nazionale d’assistenza alle frontiere per gli stranieri (Anafé), che pure quello stesso giorno stava lavorando, dal marciapiede, a un dossier da presentare ad Amnesty International, il formulario verrebbe regolarmente consegnato già compilato con la crocetta sulla seconda opzione. Per non dire della pratica di cui sono accusate le autorità transalpine: quella di modificare le date di nascita dei minorenni – anche quando indicate in documenti ufficiali – per evitare di doverli prendere in carico.
Poi c’è il grande tema dei famigerati container situati all’esterno del posto della Paf, utilizzati per ospitare durante la notte chi non ha potuto venire espulso fra le 19 e le 7, durante la chiusura del posto di polizia italiano. Diventati 9 (da 3 che erano) dopo l’aumento degli sbarchi a Lampedusa fra agosto e settembre, secondo la Paf i container sono climatizzati e provvisti di servizi igienici. Stando a chi vi ha alloggiato, le condizioni sono invece molto diverse e non in linea con i criteri di salvaguardia della dignità umana.
Di dignità umana, con la sua azione, si occupa primariamente un attore fondamentale nel delicato scenario di confine italo-francese, Medici senza Frontiere/Médecins sans Frontières (Msf), che anche a Ventimiglia, con la sua struttura mobile, fornisce un primo supporto medico e psicologico ai migranti in transito. Parliamo di persone sostanzialmente abbandonate a loro stesse e ai loro traumi, reduci da viaggi pazzeschi, spesso senza un progetto che vada oltre la vaga speranza di riuscire un giorno a superare il confine transalpino per accedere al resto d’Europa. Come vada a finire il più delle volte, e quale sia il contesto di riferimento su un territorio dove lo Stato è clamorosamente assente, lo abbiamo riferito nella prima parte di questo reportage.
Marina Castellano è per Msf il referente medico del progetto People on the Move, che ha luogo a Roccella Jonica in Calabria e a Ventimiglia, in Liguria. Il team è composto da un medico, un’ostetrica, una responsabile per gli affari umanitari e tre mediatori culturali. Il ruolo di questi ultimi – precisa subito Castellano – «è assolutamente centrale non soltanto perché ci consente di comunicare con i migranti che chiedono il nostro aiuto, ma anche perché, a monte, dispongono di tutti gli strumenti per gestire un giusto approccio con queste persone. Noi li definiamo i nostri “link culturali”». Nello specifico, per Msf a Ventimiglia lavoravano a metà ottobre Mohamed, maliano, Yahia, algerino, e Abraha, eritreo, capaci appunto di entrare in relazione con i pazienti e creare così una base di fiducia indispensabile per affrontare qualsiasi consulto.
Stando all’ultimo rapporto di Msf sulle sue attività svolte a Ventimiglia nel periodo appena precedente l’aumento degli sbarchi a Lampedusa (fra agosto e settembre) da febbraio a giugno in clinica mobile erano stati visitati 320 pazienti, mentre altre 684 persone in transito avevano partecipato ad attività di promozione della salute, nonché a un orientamento ai servizi socio-sanitari. Un dato significativo è che il 79,8% aveva dichiarato di aver tentato più volte di raggiungere la Francia, venendo sempre respinto; in almeno 4 casi erano emerse situazioni di separazione familiare durante i respingimenti. Dei 320 pazienti visitati in 4 mesi, si legge nel rapporto, 215 riportavano problemi dermatologici, infezioni respiratorie e gastrointestinali, ferite e dolori articolari, mentre 14 soffrivano di malattie croniche come diabete e malattie cardiovascolari, con necessità di terapia continuativa a lungo termine. Questo per dare un’idea del contesto, nel quale rientrano anche pazienti psichiatrici: si tratta perlopiù di migranti stanziali, soggetti ad abuso di alcool e sostanze stupefacenti e costretti a dormire in strada o in accampamenti di fortuna come quello, squallido e malsano, istituito sul lungofiume della Roia, sotto il cavalcavia della strada statale che porta a Ventimiglia.
Categoria particolarmente esposta e fragile è quella femminile, che nella clinica mobile ha portato fra l’altro situazioni di stupro, infezioni all’apparato genitale, stati di gravidanza di cui le dirette interessate non erano a conoscenza, oppure ancora parti effettuati senza alcun ausilio in ospedali libici. Diversi casi sono stati trattati in collaborazione con il Consultorio situato nella struttura dell’Asl di Ventimiglia, oppure in Ginecologia e Ostetricia dell’Ospedale di Imperia.
Cecilia Momi, referente per gli affari umanitari di Msf, rileva «l’esigenza di un vero centro d’accoglienza per migranti a Ventimiglia, attualmente non disponibile». In questo senso, un’intesa è stata firmata nei giorni scorsi fra Rete ferroviaria italiana e Prefettura d’Imperia per realizzare un secondo Punto di accoglienza diffusa (Pad) nell’ex Ferrotel in zona stazione, in cui si conta di far alloggiare fino a 75 persone “regolari” (che hanno depositato domanda e sono in attesa di risposte), fra cui anche uomini soli. Ma un conto è naturalmente il protocollo, un altro la realizzazione dell’opera. L’unico Pad oggi attivo in città, con una ventina di posti letto, dà rifugio a donne, bambini e minori. A proposito di questi ultimi, peraltro, Momi nota che «quelli non accompagnati devono essere presi in carico dallo Stato. Tuttavia, molti sono transitanti, vogliono muoversi liberamente e sfuggono pertanto a questo genere di protezione».
Fra gli interventi di maggiore rilievo effettuati negli ultimi mesi da Msf in Italia rientra sicuramente quello eseguito nelle ore immediatamente successive al tragico naufragio di Steccato di Cutro, costato, nella notte fra il 25 e il 26 febbraio, la vita a 94 persone. Parliamo di un intervento paradigmatico di quanto variegato possa essere lo spettro di aspetti da considerare in un simile caso di emergenza. «A Cutro, per quello che tecnicamente è chiamato un intervento di “psychological first aid” (primo aiuto psicologico, ndr), che va portato entro le 72 ore successive ai fatti, eravamo in 9 – ricorda Castellano –. I sopravvissuti al naufragio erano pochi e avevano visto morire parenti e amici. Ci siamo dunque confrontati con persone dissociate, disorientate, bisognose di parlare anche per provare a lenire i sensi di colpa derivanti dall’essere, loro sì, scampati alla morte. Fra i nostri compiti c’era anche quello di supportare le persone nella penosa opera di riconoscimento dei congiunti che non ce l’avevano fatta».
Unitamente alla sua attività sul campo, Msf fa anche, in qualche modo, politica, con un “programma” che è contenuto nella serie di richieste avanzate all’Italia e all’Europa “sulla base – si legge sempre nell’ultimo rapporto – delle testimonianze e dei dati medici raccolti a Ventimiglia e al confine con la Francia”.
L’esortazione alle autorità è quella di “mettere in atto tutte le misure necessarie per garantire dignità e protezione alle persone vulnerabili in transito”. Il grande obiettivo generale è raggiungibile “ponendo fine ai respingimenti sistematici e indiscriminati e ai trattamenti degradanti e inumani sia alle frontiere interne che esterne dell’Ue; ponendo fine alla detenzione arbitraria delle persone migranti e all’uso della violenza alle frontiere; garantendo un trattamento umano e adeguato alle esigenze specifiche di questa popolazione, nonché l’accesso all’assistenza sanitaria e a condizioni di vita dignitose per le persone in transito a Ventimiglia, in Italia e in Europa; e garantendo passaggi legali e sicuri alle persone che cercano assistenza e protezione in Europa, nonché il diritto dei minori stranieri di chiedere asilo sul territorio francese ed europeo”.