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La vita oltre la guerra a Gerusalemme

Riaprono caffè e negozi. E per le strade, nonostante l’inevitabile tensione, ci sono anche gli arabi

Un controllo fuori dalla moschea
(Keystone)

A Gerusalemme, la vita sta ricominciando poco a poco. Nel centro città, non ci sono più i musicisti di strada, che allietano i passanti con le melodie jazz. I negozi però stanno riaprendo e i caffè lungo il maggiore corso pedonale, la famosa “Ben Yehuda”, hanno rimesso fuori i tavolini.

Le persone per la strada stanno aumentando. Si esce per fare le cose necessarie, come la spesa, andare dal medico o a lavoro, ma anche per prendere un caffè e mangiare uno shawarma. Nei negozi, si incontrano anche lavoratori e acquirenti arabi, che preferiscono venire a fare compere nella parte Ovest della città. C’è sicuramente ancora molta tensione e le strade rimangono pattugliate dalla polizia e dall’esercito.

I giovani, WhatsApp e la realtà

Le scuole sono ancora chiuse, ma questa settimana sono cominciati i corsi via zoom. Nelle lezioni, si parla di attualità, di come superare gli stress psicologici e si cerca di alleggerire le mattinate degli studenti, insegnando tecniche di meditazione, yoga e a cucinare.


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Bambini e perfino sorrisi per le strade di Gerusalemme

Nel pomeriggio, solitamente, i ragazzi si incontrano nelle case di amici (fino a qualche giorno fa, non potendo uscire, comunicavano fra di loro solo su WhatsApp e Instagram). Quando sono insieme, però, non parlano di programmi televisivi o di musica, ma della guerra. Si chiedono quando finirà e quando potranno ricominciare a vivere normalmente.

Israele è piccolo e fra ragazzi della stessa età si conoscono tutti. Con solo un grado o massimo due gradi di separazione, ogni ragazzo è collegato ad altre persone della stessa età in tutto il Paese. Ognuno di loro è stato pertanto colpito dalla morte di un amico o di un parente. Il massacro del 7 ottobre 2023, portato a termine dai terroristi di Hamas in territorio israeliano, è stato infatti uno dei crimini più cruenti contro l’umanità della storia contemporanea. Si parla di più di 1’200 persone morte, migliaia di feriti e 250 persone sequestrate (questa cifra è stata data dallo stesso portavoce di Hamas).

Nelle ore dopo il massacro, molti ragazzi hanno riconosciuto in televisione il volto di un loro amico quindicenne, adesso ostaggio a Gaza. Altri sono andati a consolare i loro compagni, dopo che i corpi dei loro genitori sono stati trovati senza vita nel kibbutz Beeri. Alcuni ragazzi hanno invece perso un fratello, che era stato richiamato alle armi, e ora vivono con il rimorso di non aver avuto l’opportunità di dirgli “Ti voglio bene”, dopo l’ultimo bisticcio prima della guerra.


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Con il passeggino

Missili da Gaza e allerte

Intanto, Israele non ha il tempo nemmeno di piangere i propri morti, dato che continuano a essere lanciati missili da Gaza. Tutti hanno scaricato le applicazioni sul cellulare, “Red Alert” e “Hamal”, che avvertono verso che zona sono stati mandati nuovi missili e se ci sono allerte di infiltrazioni terroristiche in territorio israeliano.

Le persone nel sud di Israele sono le più colpite e vivono le loro giornate nei rifugi antimissile. Non possono uscire fuori dai “bunker”, perché – dal momento in cui i terroristi lanciano i missili – la popolazione israeliana vicino a Gaza ha pochi secondi per trovare un rifugio. Molte case nuove hanno una stanza antimissile, “maamad”, ma chi non ce l’ha cerca un sottoscala o il “miklat”, un’area protetta del condominio. Le sirene continuano a suonare almeno quattro volte al giorno anche a Tel Aviv, il target più importante del gruppo terroristico perché città simbolo dei valori occidentali.

Israele sta monitorando con attenzione pure la situazione a nord, dove sono in corso scontri con Hezbollah. A Gerusalemme, è invece già da vari giorni, che le sirene non suonano più. È infatti complicato lanciare un missile in questa zona, senza rischiare di colpire abitazioni di arabi, che vivono fianco a fianco con gli israeliani. Due giorni fa, Hamas ha inviato un missile verso Gerusalemme, che poi è caduto nella zona vicina ai Territori palestinesi, nella zona di Betlemme (e Gerusalemme dista solo venti minuti da Betlemme).

La solidarietà

In questo momento difficile, tutti capiscono che la cosa più importante è di non fare sentire nessuno da solo. Per questo motivo, adulti e bambini cercano di rendersi utili e di dimostrare la propria solidarietà al Paese sofferente. Ci si chiama al telefono per sapere se qualcuno ha bisogno di qualcosa e ci si offre di andare a fare la spesa per le persone che hanno difficoltà a uscire. I commercianti del mercato ortofrutticolo di Gerusalemme, Mahane Yehuda, regalano addirittura agli acquirenti scorte di limone, di frutta e di ortaggi.


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In fila per donare il sangue

Molti ragazzi vanno a donare il sangue per i feriti. C’è chi poi prepara scatoloni con oggetti di prima necessità, come asciugamani e calzini da portare ai soldati al fronte. Un tassista armeno è addirittura partito da Gerusalemme fino al nord di Israele, per dare vestiti ai soldati, schierati al confine con il Libano. Molti cantanti famosi stanno anche organizzando concerti per tirare su di morale le truppe.

Alcuni volontari si occupano inoltre di preparare degli scatoloni per i sopravvissuti dei kibbutz, che lo scorso 7 ottobre hanno perso tutto. Hanno bisogno di viveri, vestiti e coperte.

Un’anormale normalità

Non si sa ancora quando questa guerra finirà. Si parla perlomeno di un altro mese, ma potrebbe durare più a lungo. C’è addirittura chi dice che continuerà per altri due anni. C’è molta incertezza, ma nessuno vuole lasciare il Paese. Sono infatti più gli arrivi che le partenze dall’aeroporto Ben Gurion. In settimana è anche previsto l’arrivo di vari voli con a bordo ragazzi israeliani, che vivono negli Stati Uniti e che tornano come riservisti per difendere il Paese.

In queste ore, ci si affida molto anche alla fede. In molti lasciano un bigliettino nelle fessure del Muro del Pianto a Gerusalemme, con la preghiera di poter vedere presto riunita la loro famiglia, di riabbracciare i propri cari e di poter ritornare a vivere.

La guerra però alla fine diventa la normalità. Ci si abitua a convivere con il bollettino dei morti che aumentano, con le sirene antimissile che suonano, a scendere in fretta nel rifugio, sperando che nuovamente l’Iron Dome funzioni, per poi aspettare lo scoppio in aria del missile e poter ritornare come, se nulla fosse, a finire di lavare i piatti e a terminare la lavatrice.


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Un bambino ultraortodosso in bici per Gerusalemme