A colloquio con il montatore due volte Oscar, che ha ritirato il Vision Award Ticinomoda (lui, amichevolmente, lo chiama ‘gattopardo’)
Si è fatto le ossa come assistente al montaggio per Oliver Stone in ‘Wall Street’ e ‘Talk Radio’, ha preso quota in ‘Nato il quattro luglio’ e ‘The Doors’, e nel 1992, alla sua prima nomination, ha vinto l’Oscar per ‘JFK’, sempre di Oliver Stone. Con Ridley Scott alla regia, ci è andato vicino per ‘Il gladiatore’, lo ha rivinto per ‘Black Hawk Down’, ma alle immagini ha dato i tempi anche nel ‘Piccolo Buddha’ di Bertolucci, in ‘Will Hunting – Genio ribelle’ di Gus Van Sant, e poi un Alien, uno Star Wars e un paio di Spider-Man (e il divertente ‘Kick-Ass’). Basta e avanza, a quelli di Locarno76, per assegnare il Vision Award Ticinomoda a Pietro Scalia, premio che il montatore di origini siciliane, cresciuto ad Aarau, Canton Argovia, poi volato negli Stati Uniti per dedicarsi al cinema e cambiare le regole del montaggio, definisce amichevolmente ‘gattopardo’. Nella motivazione, Giona A. Nazzaro, direttore artistico del Locarno Film Festival, cita Eisenstein come colui che ha spiegato il montaggio e Scalia come colui che lo ha rivoluzionato.
Pietro Scalia: Nazzaro usa termini come ‘poetica’, ‘intervalli ritmici e di tempo’ e ‘musicalità del montaggio’. Il montatore è anche un po’ musicista?
In un certo senso. Io amo la musica, ma nemmeno la so leggere, e non suono nessuno strumento. Mi chiedono spesso se faccio il montaggio insieme alla musica, forse perché il mio lo definiscono, appunto, ‘musicale’. Rispondo che la musica viene sempre dopo. Io monto con un ritmo musicale così come molti musicisti possono scrivere musica incentrata sul ritmo, sul tempo, compresi i silenzi e le pause. Noi montatori lavoriamo anche con musica provvisoria, ma in generale, quando si aggiunge la musica, il film entra in un’altra, ulteriore dimensione. Io ho sempre cercato di vedere le immagini affiancate alla musica, ma è una ricerca che ci porta all’inizio del cinema, ai film muti, dove era la musica a dare il senso drammatico, emotivo. Bisogna stare attenti, però, a non abusarne, perché è molto facile, è come zuccherare troppo una bevanda. Aggiungo che per me l’immagine è anche suono, oltre che musica, decisivo nell’atto del raccontare. Quando si arriva alla fase di missaggio, del controllo dei livelli, lì sono altrettanto emotivo. Il gioco fra il ritmo visivo e quello sonoro mi affascina.
La storia dice di musicisti nati per diventare pianisti, poi ritrovatisi maestri di strumenti molto meno popolari. Montatori si diventa? O meglio: si parte sempre per diventare registi?
Parlo per me. La mia intenzione iniziale era quella di diventare regista, di fare cinema, documentari, non certo di diventare montatore. Ma chi li conosce i montatori? (ride, ndr) Ho scoperto il montaggio facendo i miei film, ne ho capito la fonte di creatività, il potere. Lo ritengo l’arte più vera del cinema; se non ci fosse il montaggio, avremmo solo infiniti piani sequenza come quelli dei fratelli Lumière, niente di più che una fotografia che si muove. Un certo tipo di montaggio esisteva già nei fumetti, per esempio, dove le inquadrature vengono tagliate, alternate, ribaltate.
Come avviene, nel suo caso, la conversione?
È successo con il mio primo film, girato all’università. Lavorando fisicamente con la pellicola, col 16 mm, mi chiedevo dove fosse il punto di taglio capace di far fare al film il salto, cercavo il significato che si rivela tra un’immagine a l’altra, la sintesi tra A e B, la dialettica, quelle soluzioni che possono andare anche oltre il significato, che mostrano il tema stesso del film.
Un esempio dai suoi lavori?
‘Il gladiatore’. Il film non cominciava con la mano che accarezza il campo di grano (a Hollywood, quel momento è chiamato ‘The Gladiator shot’, ndr), ma con un primo piano di Russell Crowe. Presi l’immagine iniziale da una scena girata alla fine del film, perché a mio parere era poetica. Bertolucci mi ha insegnato come si riesce a fare poesia con la macchina da presa, la sua musicalità nei movimenti, nei piani sequenza è evidente. Creare un tema attraverso un taglio, a mio parere, nel ‘Gladiatore’ permetteva di vedere l’eroe non solo da fuori, ma anche dentro.
Il montatore, di norma, frequenta il set cinematografico? Interagisce con gli attori?
Non tanto, almeno nel mio caso. Negli Stati Uniti io inizio il lavoro due settimane prima delle riprese; sto in una sala nei pressi del set, con i miei assistenti, è lì che riceviamo il materiale. Di tanto in tanto sul set ci vado, mi incontro col direttore della fotografia, col regista, più per fare conoscenza che altro. Capita di incontrare anche gli attori. Cito ancora ‘Il gladiatore’, che è stato girato in ordine di storia, di sceneggiatura, cosa assai rara: è capitato di dover riscrivere alcune scene, e Ridley incaricava me di spiegare il perché della necessità di girare ancora. Russell chiedeva: “Ma… di nuovo?”. A volte erano inquadrature identiche, ma con dialoghi differenti. Gli incontri con gli attori, più che sul set, sono frequenti nella fase finale del film, al momento dei doppiaggi, che io seguo.
‘Il primo complice del regista è il montatore’, dovrebbero essere parole sue. Nel caso della sua lunga collaborazione con Ridley Scott, per esempio, come ci si prende? E come non ci si pesta i piedi reciprocamente?
Come quando si è sposati, o si vive insieme. Non si tratta di vincere battaglie, ma di far funzionare un rapporto, che parte naturalmente da una simpatia, una sensibilità, e da una fiducia che viene da sapere che il materiale è in buone mani, una sensazione che accomuna entrambi. Le prime volte con Ridley, guardando il girato il giorno dopo le riprese, ho cominciato a conoscere i suoi gusti: la scena che per lui era perfetta non lo era per me; lui ne sceglieva una, obiettivamente bella, io ne sceglievo di meno perfette, e meno belle, secondo lui. A me l’estetica troppo perfetta, per luce, composizione dell’inquadratura, pare falsa. Di solito scelgo sempre da un ciak precedente, dove tutto è più spontaneo. Ma alla fine, Ridley non si è mai intromesso più di tanto. Sì, nella fase di montaggio si cerca di accorciare, di mettere a fuoco temi, storie, ma la prima visione, il primo montato è l’interpretazione che il montatore dà al regista.
Questo è il Festival al tempo degli scioperi, questione di salari ma pure d’intelligenza artificiale: anche il montatore è a rischio?
Non saprei, mi verrebbe da chiedere a lei (ride, ndr). Se parliamo di sceneggiatori, forse basta guardare alle serie tv, assemblate in formule che si assomigliano tutte, per struttura, drammaturgia, attori…
… l’inizio coi droni dall’alto…
… le tre, quattro persone in un corridoio che poi ti spiegano tutto, soluzioni alle quali il pubblico si è abituato. Sì, l’intelligenza artificiale causa pericoli. Non so se il montatore sia a rischio, non ora forse. L’intelligenza artificiale può creare immagini, testi, ma per il linguaggio cinematografico legato al montaggio, qual è l’input? Quali sono i dati da comunicare alla macchina? Se si trattasse di musica, se si volesse una colonna sonora alla Hans Zimmer, col quale ho fatto tanti film, la macchina potrebbe pure trovarne una affine. Il montaggio, invece, è qualcosa di molto personale. La sensibilità dell’essere umano di riconoscere se una cosa è vera o falsa, la complessità delle emozioni provate, come s’insegnano alla macchina?
Caricandole la poetica di cui parla Nazzaro…
Sì, ma la macchina dovrebbe diventare umana. Cosa vuol dire essere umani? Tutto, in noi, è basato sull’esperienza di vita. Io ho avuto la fortuna di crescere in Svizzera, sono nato da genitori italiani, ho assorbito due culture diverse, poi sono partito da giovane per impararne una completamente diversa negli Stati Uniti; ho mantenuto l’apertura sulle culture diverse, sulle lingue, nel senso di come le cose vengono dette, i significati. Io non so se l’intelligenza artificiale sarà in grado di farlo. Può darsi tra cinque, sei anni, chissà. Di certo, il momento è critico.
Mi ha dato l’assist: quanto è contato, nella sua affermazione, l’essere cresciuto in terra elvetica? Le sono stati più utili l’essere italiano di nascita o gli anni ad Aarau per ambientarsi a Hollywood?
Sa, per via della lingua, a volte mi chiedono se sono svizzero italiano, perché sembro ticinese, altre volte mi chiedono se sono italo-americano...
Cittadino del mondo?
Del mondo e di nessuna parte del mondo. Sono stato fortunato per avere radici e temperamento italiani, ma sul metodo di lavoro sono molto svizzero, preciso. Potrei anche costruire degli orologi (ride, ndr). Mi chiamano ‘SS’, Swiss Sicilian, per il fatto di unire queste due qualità. Ma sono definizioni un po’ generiche, nella mia vita sono contate le esperienze fatte, le persone che ho conosciuto e che mi hanno dato tanto, e l’interesse per lingue e culture differenti.
Grazie (solo una curiosità, del tutto personale: dove tiene i due Oscar?...)
Non sono esposti. Li ho nell’armadio. Gli amici mi invitano a farli vedere, ma io non sono uno che mette i trofei in vetrina. Ma il ‘gattopardo’ sì, mi piace moltissimo. Ho un gatto, e me lo ricorda tanto.
LFF
Pietro Scalia