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Insulti razzisti, ‘docenti soli, la scuola deve fare di più’

La presidente della Commissione federale contro il razzismo auspica misure in classe per fronteggiare le discriminazioni e non guardare dall'altra parte

La presidente della Commissione federale contro il razzismo auspica misure in classe per fronteggiare le discriminazioni e non guardare dall'altra parte

17 luglio 2023
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Insultato nella chat dei compiti da un compagno delle medie di Lugano per il colore della sua pelle. ‘Sei un brutto negro. Sei uno scimmione africano’. La scuola ha risposto ai genitori di Alessandro (11 anni) che in pratica “non si può controllare una chat creata dagli studenti per studiare”. Una storia di razzismo nata tra i banchi e raccontata al giornale dai genitori del giovane (vedi laRegione, lunedì 10 luglio) che pone diversi interrogativi su cosa fare. Denunciare le umiliazioni subite? Segnalare il caso in direzione? Aprire un dialogo coi genitori dell’aggressore? Cercare una mediazione esterna? Cambiare scuola? Far finta di nulla e aspettare che passa, tanto reagire rischia di peggiorare la situazione? È il dilemma di tante vittime di insulti razzisti e dei loro genitori. «La scuola può e deve fare di più. Che sia penalmente rilevante o meno, l’insulto razzista va riconosciuto e combattuto. Servono misure e protocolli dentro gli istituti. Tocca alla politica dare un segnale importante», dice Martine Brunschwig Graf presidente della Commissione federale contro il razzismo. Vediamo perché.

La sorprendono gli insulti razzisti tra ragazzini delle medie?

Purtroppo no. Non sono sorpresa nemmeno dalla reazione della scuola. In Svizzera i vari istituti affrontano in modo molto diverso questi episodi.

Al di là delle vie penali e civili. Servirebbero protocolli per uniformare l’intervento di direzioni e docenti in caso di episodi razzisti e non lasciarlo alla sensibilità di ciascuno?

Gli insegnanti sono spesso lasciati soli, senza indicazioni su come reagire. Ogni istituto dovrebbe avere un punto di riferimento per i casi di razzismo, dove docenti, studenti (sia vittime, sia autori) e familiari possono rivolgersi. A dipendenza della tipologia di scuola, può essere una persona o un team, riconosciuto ufficialmente dall’istituzione.

Alcuni genitori si sentono disarmati e soli quando il loro figlio diventa bersaglio di molestie a sfondo razzista…

È così. Il messaggio deve partire dall’alto. Tocca all’autorità politica dire che è indispensabile avere questo tipo di organizzazione nelle scuole. Poi sta alle direzioni scolastiche trovare il modo migliore di applicarla.

Ci sono esempi virtuosi in Svizzera?

Ci sono istituti scolastici organizzati con persone di riferimento dove segnalare i casi. Ciò non basta. Poi l’autorità scolastica deve prendere provvedimenti adatti alla situazione. Questo passo è talvolta difficile, perché c’è la tendenza diffusa a banalizzare queste situazioni, considerandoli casi isolati, non gravi. Se nell’istituzione scolastica non c’è la chiara consapevolezza che le molestie razziste sono un problema grave, la tendenza sarà quella di lasciar correre. Intervenire invece è importante. Sono problematiche che andrebbero tematizzate nel percorso formativo dei direttori scolastici.

KeystoneBrunschwig Graf: ‘Purtroppo la tendenza è quella di lasciar correre’

Alcuni genitori temono che segnalando, la vittima venga ancora più isolata dai compagni di scuola. Qual è il modo migliore per intervenire?

È un timore legittimo, serve discrezione e intelligenza per decidere come intervenire, anche per evitare la vittimizzazione secondaria. Oltre alla sanzione, occorre accompagnare l’autore, fare prevenzione in classe, coinvolgere i genitori. Per trovare la via giusta occorre avere una formazione alle spalle che permetta di reagire nel modo corretto. I problemi di discriminazione in classe non riguardano solo il colore della pelle, ma anche ad esempio il peso.

Perché la scuola è un luogo importante dove lottare contro il razzismo strutturale?

Dal punto di vista pedagogico è il luogo dove si insegna cos’è il razzismo, le sue origini, le forme di espressione passate e presenti. Allo stesso tempo è un luogo dove possono succedere episodi di razzismo che imperativamente vanno affrontati. Gli studenti trascorrono gran parte del loro tempo in classe. Chi subisce insulti o atti discriminatori viene ferito in modo continuativo e intenso. Inoltre, dopo la scuola, continua sui social.

Chat per i compiti, chat tra compagni, luogo di ricreazione, classe… il codice penale distingue tra spazio pubblico e privato per determinare la gravità degli insulti razzisti. La scuola deve seguire questa logica?

Indipendentemente dal fatto che sia uno spazio privato o pubblico, ogni istituto scolastico è chiamato a intervenire. Non deve limitarsi a commentare che è uno spazio privato, ignorare i fatti e guardare altrove. Gli atti discriminatori non sono ammissibili, creano sofferenza, feriscono la dignità altrui, anche se non configurano un reato penale.

Secondo un recente studio, gli strumenti pedagogici non integrano la diversità presente nella società. La scuola è all’altezza della sfida?

Si può migliorare. I testi di studio sono spesso confezionati in modo decentralizzato, per regioni, quindi sono molto diversi. Spesso il tema del razzismo è trattato come un argomento che riguarda gli altri e non la società in cui viviamo. La Svizzera è un Paese con molte diversità, dobbiamo vigilare che non ci siano discriminazioni.

Dunque, il tema del razzismo quotidiano verso chi è diverso, va tematizzato meglio a scuola?

È così. Un recente studio ha appurato che nei piani di studio regionali (romandi e tedeschi) si menzionano temi come diritti umani, cittadinanza, ma non c’è mai espressamente la parola razzismo. È un segnale importante, ci fa concludere che il razzismo non viene sufficientemente considerato nel percorso formativo. C’è il timore a evocarlo. Il silenzio non aiuta.

Cosa risponde a chi pensa che tocca alla famiglia, e non alla scuola, educare, correggere attitudini razziste?

Il razzismo è vietato dalla Costituzione, non possiamo essere indifferenti e ignorare questi episodi a scuola, bisogna intervenire. Come si può insegnare cosa significa essere buoni cittadini senza lottare contro la discriminazione a scuola? Se non si proteggono le vittime tra gli allievi agendo in modo efficace, passa il messaggio che nessuno è responsabile, che il razzismo è tollerato e va bene così.

Secondo i vostri studi, quali altre situazioni sono più a rischio di discriminazione?

Sicuramente il posto di lavoro e la fase di reclutamento di personale. Anche in questo caso, l’esempio deve venire dall’alto: nelle multinazionali, ad esempio, le regole sono chiare (la discriminazione non viene tollerata) e vengono prese più precauzioni. Ma non è così ovunque e c’è molta prevenzione da fare. Inoltre, c’è l’ampio capitolo dei social dove si leggono spesso commenti razzisti inammissibili e penalmente punibili. Succede anche nei siti di molti media, dove si accettano commenti anche da parte di anonimi e malgrado i moderatori.

La Scuola media

‘Un compito del docente di classe’

Secondo Martine Brunschwig Graf, presidente della Commissione federale contro il razzismo, gli istituti scolastici virtuosi sono quelli che si sono dotati di un punto di riferimento interno per i casi di razzismo, dove docenti, studenti (sia vittime, sia autori) e familiari possono rivolgersi. Se nell’istituzione scolastica non c’è la chiara consapevolezza che le molestie razziste sono un problema grave, la tendenza sarà quella di banalizzare e lasciar correre. Il messaggio deve venire dall’alto, dice Graf, perché intervenire è sempre importante sia che l’atto razzista avvenga in un luogo di ricreazione o in un’aula scolastica, sia che si prolunghi in una chat per i compiti o tra i compagni. «Il ruolo della scuola è quello di educare, anche al rispetto. Lo si fa principalmente attraverso il docente di classe. Se è a conoscenza di atteggiamenti razzisti tra allievi dovrebbe parlarne in classe e far riflettere gli studenti. Quello che succede tra loro, anche in ambiti extra scolastici, ha spesso ricadute in classe», commenta Tiziana Zaninelli. La responsabile dell'insegnamento medio (del Decs) aggiunge poi che ci sono interventi puntuali nelle scuole medie come ad esempio ‘e-www@i!‘ di Aspi che mira a sviluppare nei ragazzi uno spirito critico rispetto all’uso delle tecnologie o come il gruppo della polizia ‘Visione giovani’ che affronta anche il tema della rete e della diversità.

«Vorrei ricordare che non si può usare tutto a tutte le età. Per Whatsapp ad esempio servono più di 16 anni», aggiunge. Dentro le scuole medie non sembrano esserci figure di riferimento specifiche sul tema razzismo a cui docenti, allievi o genitori possono fare riferimento e chiare linee di intervento uguali per tutti. «Spesso questi fatti accadono fuori dalla scuola. Quando una situazione viene alla luce, è di regola il docente di classe che affronta il tema con i ragazzi».