Achille Campanile ce li racconta, ma è come se assistesse allo spettacolo insieme a noi.
Per fare certe cose ci vuole orecchio. Bisogna averlo tutto, tanto, anzi parecchio per intravedere, nella rassicurante prevedibilità di esistenze apparentemente lisce, piccole crepe in cui lasciare che il caso si insinui, leggere imperfezioni sulle quali sospingere la monotonia quotidiana fino a conseguenze paradossali e assurde, deviazioni quasi impercettibili dai percorsi quotidiani che spezzino il confine tra senso comune e balordaggine.
Ci vuole uno sguardo spudoratamente libero per immaginare, ad esempio, gli esiti disastrosi dell’apprendimento delle lingue straniere, se nella vita reale si seguisse la logica lunare dei manuali scolastici, che per far imparare nuovi vocaboli propongono dialoghi inverosimili (“Mamma, comperasti la tovaglia?”; “No, ma comperai il rasoio per tuo fratello”), dando l’impressione che gli interlocutori siano dei poveri cretini. O per inventarsi le indagini di un coscienzioso cittadino che, turbato da bambino dalla frase “Povero Piero, perì a Pavia”, trovata nel suo primo libro di lettura, decide da adulto di ricostruire la storia di Piero e di scoprire le cause della sua morte.
Ma attenzione: in questa e nelle altre storie che compongono il ‘Manuale di conversazione’, edito da Rizzoli nel 1973, Achille Campanile non giudica i suoi personaggi, non mette alla berlina convenzioni, stereotipi, manie, incongruità per contestare l’ordine costituito, non si prende gioco del bon ton borghese per vagheggiare stravolgimenti sociali, sollecitare prese di coscienza, stimolare pensose riflessioni su un mondo da cambiare. I suoi sgangherati anti-eroi sono persone comuni ritratte nelle loro debolezze, insulsaggini e malinconie, poveri cristi ingenui e a loro modo decorosi, che reagiscono alle bizze del caso con comica dignità. Campanile li osserva bonariamente, con misurata partecipazione, perché la partita, annota Carlo Bo, “non si svolge mai fra uomo e uomo o fra uomo e la società ma fra il personaggio e una quantità variabile di mistero e questo senza bisogno di insistere o di alzare il tono della voce o caricare le tinte”. Campanile ce li racconta, ma è come se assistesse allo spettacolo insieme a noi.
Ci sono due coniugi, in balìa di un figlio capriccioso e di una governante sbadata, che per individuare il bicchiere infrangibile sfidano il calcolo delle probabilità rompendo tutti gli altri. C’è uno scrittore in crisi di ispirazione che scopre una miniera d’oro negli strafalcioni di una dattilografa, appena licenziata dal collega. I suoi errori di battitura regalano ai romanzi un’inaspettata verve comica, che incontra i favori del pubblico e della critica, finché lei, presa dai rimorsi per i molti errori commessi scrivendo a macchina, non decide di studiare per diventare impeccabile, e a quel punto l’incanto finisce. C’è lo spudorato lettore di una rivista di moda e mondanità che, spinto dalla frase “Se avete quesiti da porci, rivolgetevi a me che sono qui per soddisfarvi”, ha rivolto una domanda sconveniente a una redattrice, non avendo capito che “porci” (con la o chiusa) non è il sinonimo di “maiali” (in quel caso avrebbe la o aperta), ma un’innocua voce del verbo “porre”. C’è anche una questione della massima importanza: non basta, come affermano i libri di storia, sapere che “I gesuiti, per opinione generale, introdussero il tacchino in Francia”. Da quale Paese il tacchino è stato introdotto in Francia? Vi è stato introdotto palesemente o clandestinamente, essendo un animale ancora ignoto in Francia? Ed è entrato vivo o era già arrosto? In quest’ultimo caso, dove e come era stato cucinato?
Restano da comprendere le ragioni di questa anarchica traversata nell’insensatezza. Vanno cercate, probabilmente, in quel gusto amaro che rimane in fondo alla risata, nella consapevolezza che tutto, il normale e il ridicolo, il sensato e l’insensato, è destinato a finire, comprese le ansie e le vanità degli uomini. Lo dimostra il racconto L’avventura: un uomo si prepara con puntiglio e comprensibile ansia a un appuntamento galante, ma un inspiegabile cataclisma devasta il pianeta: “Uno spazio, nell’Universo, ingombro di sassi e pezzi di roccia neri, rottami minuti, frammenti di carta, stracci, gambe di tavolini, terriccio, chiodi divelti e storti, bulloni isolati, qua e là una testa di morto senza corpo, con gli occhi vitrei aperti nell’oscurità, qualche arto disperso, improvvisamente qualche cadavere rimasto intatto, un bicchiere salvatosi chi sa come, fuscelli, pezzetti di roba non identificabile, cocci, i quali tutti continuavano, come una tetra, buia processione, a viaggiare silenziosamente, conservando le distanze, lungo l’orbita fino a poco prima percorsa dalla Terra scomparsa”.