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La deriva dell’Ecuador: triste, solitario y criminal

Il presidente Lasso, a rischio impeachment, ha fatto saltare il banco. Il Paese, paralizzato da violenze e crisi economica, andrà al voto il 20 agosto

Un murale-collage con il volto di un bambino-lavoratore sul corpo del presidente Lasso
(R. Scarcella)

Parlano tutti in Ecuador. Parla Jon, il barista delle spiagge di Esmeralda fuggito dalla violenza delle gang (“Entrano nei locali e sparano, non guardano nemmeno chi c’è dentro. A loro non importa”) e rifugiatosi con i suoi cocktail “en el Oriente”, come si dice là, a El Coca, porto e porta dell’Amazzonia; parla Eduard, il laureato venezuelano – scappato da un Paese che non si può nemmeno più definire tale – con un passato da ingegnere e un presente alla guida di un Uber, “perché di meglio, se vuoi un lavoro onesto, non puoi trovare”; parla Juan, il tassista di Guayaquil che ha deciso di diventare avvocato (“Perché se conosci le regole del gioco è più difficile che ti freghino”) e al pomeriggio segue le lezioni online dal cellulare mentre guida; parla Karla, l’odontoiatra che non s’interessava di politica finché non ci si è ritrovata dentro dopo aver visto da vicino gli scempi e i favoritismi dentro l’università in cui lavora. Parlano tutti e tutti malissimo del presidente uscente Guillermo Lasso.


Il presidente uscente, Guillermo Lasso

Quel che dicono i muri

In Ecuador parlano persino i muri. A Guayaquil, appena diventata la 24esima città più pericolosa del mondo, minacciano e intimidiscono, compreso un facile, ma efficace gioco di parole che fa capolino tra i palazzi del centro: “Guayakill”. A Quito sono didascalici e provano a spiegarti quanto è in difficoltà un Paese che avrebbe abbastanza ricchezze per tutti, finite però nelle tasche di pochi: a due passi dall’imponente Basilica del Voto Nacional, c’è il murale che ti avvisa che ogni 24 ore, nel Paese, sparisce una persona; dietro La Ronda, dall’altro lato del centro storico, c’è il murale che elenca i femminicidi e quello – con un pugno chiuso ben in vista – che ricorda che “i diritti si esigono stando in piedi, mai in ginocchio”; nel quartiere bohémien de La Floresta, dove la denuncia incontra l’arte, ti viene sbattuta in faccia la metamorfosi forzata dei popoli indigeni, le cui gloriose lance da cacciatore sono sostituite da aste con sopra rulli da tappezziere. A Cuenca, l’unica delle tre grandi città dell’Ecuador dove puoi girare per strada senza doverti guardare continuamente le spalle – senza temere a ogni angolo borseggiatori, assalti armati, se non addirittura proiettili vaganti (a Guayaquil sta diventando una consuetudine) – c’è perfino qualche muro che si permette l’uso dell’ironia, va da sé amara come uno dei totem del Paese, il cacao: “Si no fuera Lasso, seria otro payaso”. Insomma, se non fosse Lasso, sarebbe un altro pagliaccio.


R. SCARCELLA
“Se non fosse Lasso, sarebbe un altro pagliaccio”, a Cuenca

Lasso, a quanto pare, non sarà più, dopo aver usato l’ultima arma rimasta, un pungiglione chiamato “muerte cruzada”, in questa versione equatoriale della rana e lo scorpione, dove Lasso, lo scorpione, affonda trascinando con sé il Parlamento che era a un passo dal neutralizzarlo con una procedura per impeachment legata a due grandi casi di corruzione. Una volta capito che non si sarebbe salvato ha sciolto le camere e attivato, appunto, la “morte incrociata”: cade lui, cadono tutti. Le elezioni si terranno il 20 agosto, da lì si ricomincerà, non si sa ancora con chi, perché non esiste un chiaro favorito al momento. Nel frattempo Lasso ha ancora qualche settimana per emanare decreti d’urgenza senza dover passare dall’aula, che non c’è più. Dicono che li userà per favorire gli amici, e quindi le banche, i ricchi, chi di favori non avrebbe bisogno. D’altronde Lasso, chiamato il presidente-banchiere, è l’espressione di quella piccola fetta di Ecuador che lo possiede tutto o – ben pagata – fa da tenutaria per qualcuno ancor più ricco che, fuori dal Paese, non vuol sporcarsi le mani in questa Repubblica delle banane (primo esportatore al mondo) e delle pallottole.


R. SCARCELLA
Murale sui desaparecidos nel centro di Quito

L’ora del coprifuoco

Si parla degli anni di Rafael Correa, l’ex presidente che – inseguito da una serie di guai giudiziari – ha trovato riparo in Belgio, come degli anni d’oro e di tutto quel che è venuto dopo come una rapida discesa agli inferi, iniziata con Lenín Moreno e proseguita con Lasso, a cui la pandemia e l’immigrazione fuori controllo dal martoriato Venezuela hanno dato il colpo finale. Oggi l’Ecuador sembra uno di quei Paesi distopici da serie tv, dove a una certa ora, in alcuni luoghi, cala addirittura il coprifuoco (alle 21 nella provincia di Esmeralda, all’una di notte a Guayaquil), con i militari a presidiare piazze e luoghi di aggregazione e i giornali stracolmi di notizie di cronaca nera.

Nella sola area di Guayaquil, nel giro di due giorni, c’è stato un regolamento di conti in un campo da calcetto, il ritrovamento di un uomo dentro a una valigia e l’attentato al sindaco di Durán (sopravvissuto, ma che è costato la vita a due agenti e a un lattaio di passaggio), la città oltre il rio Guayas collegata a Guayaquil da due ponti, una cabinovia e dalle gang del malaffare. Qui, come a Esmeralda, alcuni ministeri degli Esteri, compreso quello svizzero, sconsigliano di viaggiare. Nella provincia di Santa Elena, a quattro ore di bus da Guayaquil, le cose non vanno meglio. Pochi giorni fa, un commando ha aperto il fuoco in un ristorante turistico di Montañita, patria dei surfer, del ceviche sulla spiaggia e delle notti brave, uccidendo sei persone. Apri il giornale, non importa in che giorno, e sembra di sfogliare un cimitero.


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Le proteste e la risposta delle forze dell’ordine

L’economia, neanche a parlarne: a Quito lo stipendio mensile supera di poco i 500 dollari (dollaro diventato moneta nazionale dopo l’affossamento del vecchio sucre). Se vuoi vivere dignitosamente, in una casa quasi sicura in un quartiere quasi sicuro, ogni mese ne devi sborsare 400. Chi può permettersi il lusso di qualche svago extra, dopo il tramonto sale su un Uber (perché tracciato, a differenza dei taxi chiamati in strada, che spesso operano sequestri-lampo) o con la propria auto sin davanti alla porta del locale che ha scelto, dove c’è sempre una guardia. C’è chi vive nella capitale e, per paura, non frequenta il suo meraviglioso centro storico coloniale – patrimonio Unesco – da prima della pandemia.


R. SCARCELLA
Un cartello contro il presidente Lasso, definito bugiardo

E ora?

L’addio ormai prossimo di Lasso, ammesso che scompaia davvero politicamente (lui stesso ha già dichiarato che non si candiderà), è solo l’inizio di un processo lungo e per forza di cose accidentato. In vista delle presidenziali di agosto si sono fatti avanti i personaggi più disparati, dall’ex ministro di Correa, Andrés Arauz (sconfitto proprio da Lasso nel 2021), a Otto Sonnenholzner, delfino dell’ex presidente Lenín Moreno, uno che – secondo l’esiliato Correa – potrebbe avere abbastanza potere, appoggi e carisma da far convergere alla fine tutto il voto conservatore su di sé.


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L’ex presidente in esilio Rafael Correa, rimpianto da molti

A sparigliare le carte c’è Leonidas Iza, leader del movimento indigeno e delle proteste antigovernative. Mentre per mantenere lo status quo è già pronto un altro banchiere figlio di papà, Daniel Noboa. Poi c’è l’imprenditore delle telecomunicazioni Jan Topic, uno che cerca la sponda dei cattolici e promette la tolleranza zero. Tra tutti, finora, ha però spiccato il messaggio provocatore, a metà strada tra Gandhi e Garibaldi, dell’avvocato dei diritti civili Pedro Granja, un uomo senza macchia, da sempre a contatto con i più bisognosi. Dice che l’unico che potrebbe batterlo è Correa, ma Correa non c’è. Granja è la speranza del ceto medio più illuminato, specie in via d’estinzione di un Paese in cui già essere poveri sembra essere diventato un privilegio rispetto a chi finisce anzitempo – spesso senza colpe, se non l’essersi trovato al posto sbagliato al momento sbagliato – al camposanto.


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Poveri e militari, una scena non rara