laR+ l'intervista

‘Il caos in Sudan potrebbe favorire i fondamentalisti islamici’

L'analisi di Matteo Fraschini Koffi, esperto dell'area subsahariana: ‘È già una guerra civile, finirà solo con la morte o la fuga di uno dei due generali’

Il Sudan brucia
(Keystone)
27 aprile 2023
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Il Sudan è nel caos. Chi può fugge, mentre l’esercito fronteggia i paramilitari nella capitale Khartoum e in altre zone del Paese. Ma chi c’è dietro questo vuoto di potere? Cosa accadrà e cosa ci ha portato fino a qui? A rispondere è il giornalista Matteo Fraschini Koffi, che dal Togo copre tutta l’area subsahariana.

Partiamo dalle basi. Quali sono le parti in gioco?

Da una parte c’è Abdel Fattah al-Burhan, sulla carta il presidente di questa transizione militare cominciata con lo spodestamento dell’ex presidente Omar al-Bashir nel 2019. Dall’altra c’è il famigerato Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, che viene dal Darfur, la regione occidentale del Sudan, che per molti aspetti ha molto più a che fare con il Ciad. Negli anni 2000 Hemeti era a capo dei janjaweed, i terribili miliziani che hanno fatto massacri nel Darfur diretti da al-Bashir, che vedeva Hemeti quasi come il figlio che non aveva mai avuto. Al-Bashir dava gli ordini, Hemeti li eseguiva. Parliamo di violenze molto particolari ed efferate. Nel 2013 i janjaweed, che avevano combattuto per il governo sudanese anche in altre zone del Paese, diventano le Forze di supporto rapido, molto più integrate nell’assetto statale. Una volta dentro però acquistano sempre più potere e legittimità andando in attrito con il potere di al-Burhan.


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Il generale Abdel Fattah al-Burhan

Cosa li aveva avvicinati?

Nel 2018 il Sudan viene travolto da manifestazioni di piazza, con la popolazione che protesta contro il costo diventato impossibile di zucchero, pane e altri beni di prima necessità. La protesta si allargò, dilagando in altri settori e i vari sindacati di medici e insegnanti furono supportati da ampi strati della popolazione. Questi moti di piazza si rifacevano alle Primavere arabe, con l’appoggio dei social media e un entusiasmo tale da portare, nel 2019, alla caduta di al-Bashir, spodestato con l’avallo proprio dei generali Hemeti e al-Burhan. I due si ritrovarono così a condividere il potere: al-Burhan ha quella facciata di sistema legata al potere militare e anche l’etnia “giusta”. Hemeti invece è considerato un outsider: prima era un po’ nell’ombra, poi ha acquisito potere, ma resta comunque estraneo ai palazzi e alle dinamiche di Khartoum. Avendo contribuito a questo spodestamento, tuttavia diventò il vicepresidente di al-Burhan.

E cosa ha polverizzato i loro rapporti?

Dopo il 2019 il Sudan promette alla comunità internazionale un processo di democratizzazione e un ritorno al potere civile. Viene fatto insediare un primo ministro, Abdallah Hamdok, che però è troppo debole. Dopo 30 anni di regime militare, non è che cambi le cose nel giro di un paio d’anni. Quando sembra che Hamdok abbia un forte supporto popolare e che il governo possa davvero cominciare il processo di democratizzazione, ecco che interviene, con l’avallo dell’Egitto, al-Burhan. Avviene quindi il vero colpo di Stato che porta all’arresto di Hamdok: ma tra i due generali era soltanto al-Burhan a volere questo golpe.


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Il famigerato Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti

Hemeti, tra l’altro, aveva già fatto trapelare la sua intenzione di lasciare l’uniforme paramilitare e candidarsi alle elezioni. Ma lui presidente del Sudan, in quanto outsider di una zona periferica, non lo può diventare, è un illetterato che si è fatto strada come combattente. Nonostante i due non fossero d’accordo sul golpe, si doveva comunque trovare una via per democratizzare il Paese. Ma la bozza preparata ai piani alti era una specie di affronto alle Forze di rapido supporto di Hemeti, a cui nell’accordo si chiedeva di non avere praticamente potere. Solo una vaga promessa, in un futuro prossimo, di essere integrati nel vero esercito. Poche parole in un paragrafino che faceva capire che non avrebbero contato nulla. Il tutto irricevibile per Hemeti, che da lì ha dispiegato i militari in varie località del Paese facendo sfociare il tutto nel conflitto che vediamo oggi.

Ma chi sta con chi? Chi potrebbe mediare tra le parti?

Hemeti è supportato da Russia ed Emirati Arabi Uniti, ha le armi ma anche il potere economico, avendo occupato gran parte delle miniere d’oro che stanno nel Darfur e forse anche in altre regioni, esportate guarda caso proprio a Dubai e ad Abu Dhabi. Insomma, Hemeti ha le armi e l’oro, con livelli record di esportazione, di cui almeno la metà trafficato. Quindi assi nella manica non da poco. Però al-Burhan è più legittimato, intanto dall’Egitto, che per anni ha praticamente guidato il Sudan da lontano. L’Egitto vorrebbe mediare, ma ha già i suoi problemi, Erdogan anche, perché ha molti interessi nell’area e così l’Arabia Saudita, che è comunque dalla parte dell’Egitto, e quindi con al-Burhan. Mentre c’è il quasi totale silenzio dell’Unione africana, che ha subito sanzionato Stati come Burkina Faso e Mali, mentre con il Sudan non fa la voce grossa, perché Khartoum, nonostante tutto, ha grande potere geopolitico per storia e tradizione. Anche l’Unione dei presidenti di Kenya, Gibuti e Sud Sudan si è fatta avanti, ma contano poco. Forse un negoziato ad Ankara o a Riad avrebbe più speranze, ma dubito che i due generali, a meno che non gli si prometta qualcosa di particolare, abbiano intenzione di trovarsi faccia a faccia.


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Donne di Khartoum il 19 aprile scorso

Che scenari si prospettano?

L’opzione più “conveniente” per il Sudan è che uno dei due generali venga messo fuori gioco, ucciso, visto che se lo sono promesso. Ma basterebbe che uno dei due scappi dal Paese. Lì potrebbe ripartire una ricostruzione. I sudanesi vorrebbero un potere civile, e non vorrebbero nessuno di loro due al potere. A livello popolare c’è stato un grande progresso democratico, che però al-Burhan ed Hemeti non rispecchiano. Il potere delle armi, tuttavia, è ancora troppo forte e con le armi controlli tutto. Nessuno dei due credo che alla fine prenderà il potere, cercheranno un’altra figura che possa essere abbastanza unificante per entrambe le parti, ma al momento non ho proprio idea di chi possa essere. O al-Burhan riuscirà a sopraffare le Forze di supporto rapido con l’aiuto di Egitto, Cina e Arabia Saudita, riproponendo un governo militare di transizione.

C’è quindi uno dei due in una posizione di vantaggio?

L’esercito regolare di al-Burhan ha dalla sua l’aviazione e non è poco. Il vantaggio numerico dei regolari si è assottigliato: dovrebbero essere 100-103mila, pare che le forze di Hemeti, che prima erano la metà, siano anche loro circa 100mila. E sono anche ben equipaggiati, perché russi e americani non danno loro dei caccia, ma altre armi come bazooka e mortai. Hemeti poi resiste benissimo, si è addirittura fatto riprendere qualche giorno fa per le strade di Khartoum dopo che al-Burhan l’aveva sfidato, dicendo che restava rintanato nelle sue caserme. Khartoum è il luogo principale di battaglia, ma ci sono vari focolai anche nel sud del Sudan. Per ora se le danno di santa ragione e provano a farla diventare un battaglia tra etnie; non possono farlo con la religione, visto che è la stessa, sono tutti musulmani. Ma la guerra civile è come se fosse già iniziata, anche se è combattuta da militari. Una volta che anche i civili prenderanno le armi, i problemi aumenteranno, anche perché i due leader stanno istigando e provocando in tutti i modi. Non credo succederà domani o tra un paio di settimane, ma fra qualche mese sì. Se i civili non ce la faranno più, saranno costretti o si sentiranno di prendere le difese di una o dell’altra fazione, genereranno ulteriore caos.


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Una colonna di fumo si alza da un palazzo della capitale sudanese

E la gente comune come la vive?

L’elettricità, se c’è, è pochissima e a intermittenza. I due terzi degli ospedali sono fuori uso o non hanno personale medico sufficiente. I sudanesi che potevano permetterselo hanno preso le loro auto o un bus e sono andati da tutte le parti, in particolare in Egitto. Quelli con la doppia nazionalità, come sappiamo, sono fuggiti con gli aerei organizzati dai Paesi occidentali. I poveri non hanno nemmeno l’acqua corrente, bevono dal Nilo, ma lo fanno ormai anche quelli della borghesia. Poi rubano nei negozi, ammesso che trovino ancora qualcosa, in 20mila sono arrivati in Ciad, altri 10mila in Sud Sudan, paradossale, visto che c’è la guerra anche lì.

Che cosa potrà succedere ancora?

Il timore è che diventi una specie di Mogadiscio, in Somalia, dove quando andò via Siad Barre, si fronteggiarono i due signori della guerra, Aidid e Ali Mahdi: uno controllava Mogadiscio nord e l’altro Mogadiscio sud. E poi arrivarono gli estremisti islamici. Potrebbe succedere anche in Sudan, che è quello che dice Hemeti, e non è una minaccia campata per aria, ma concreta. Ricordiamo che a Khartoum, negli anni Novanta, Bin Laden ha vissuto diversi anni, e lì era protetto. Inoltre dentro all’allora governo di al-Burhan c’erano anche i Fratelli musulmani sudanesi, legati a quelli egiziani con cui erano in contatto. Il rischio insomma c’è, eccome.

Come si stanno muovendo gli americani?

Certo è che, anziché sostenere il processo democratico che doveva prendere il potere in Sudan, hanno lasciato che le sanzioni rimanessero, contribuendo a spaccare l’economia sudanese, portandoci a questo macello. Magari tra un po’ decideranno di intervenire, oppure lasceranno correre influenzando da dietro le quinte. In Somalia, ad esempio, la guerra civile va avanti da trent’anni. Ora gli americani sono riusciti a portare al potere Hassan Sheikh Mohamud, molto filoamericano, praticamente un asset della Cia, ma il suo predecessore era molto più vicino agli estremisti e ai Paesi del Golfo. A Washington, al momento non conviene intervenire in Sudan, al massimo manderanno qualcuno dei servizi. Come detto, stanno cercando disperatamente di fermare l’influenza russa in Africa. In Mali, dove i russi combattono, gli americani potrebbero fare l’errore fatto con i sovietici in Afghanistan, dando armi ai talebani che poi gli si sono ritorte contro. È un caos, ma una cosa è certa: gli Usa vogliono la loro fetta di Africa, l’ultimo continente con molte risorse disponibili.