Fresco del suo primo incontro (un'amichevole) sulla panchina granata, il neoallenatore Sergio Zanetti si racconta a 360 gradi. Dai potreros al Ticino
Umile, determinato e intraprendente. È chiamato a condurre il Bellinzona in acque più tranquille, lontano dallo spauracchio retrocessione (che, almeno sulla carta, sembrerebbe essere stato dissipato). La grande esperienza accumulata in qualità di giocatore e allenatore pare dunque piuttosto benaugurante. Dall’odierna Primera División Argentina, l’equivalente del massimo campionato rossocrociato, alle squadre giovanili. Il pallone è il cuore pulsante della vita di Sergio Zanetti, in trepidante attesa del suo primo incontro ufficiale sulla panchina granata questa domenica in quel del Comunale, quando affronterà l’Aarau. Nato e cresciuto ad Avellaneda, modesta cittadina di pescatori nei dintorni di Buenos Aires, dai calci nel grembo materno passa a quelli sulla terra battuta del campetto sotto casa, punto di ritrovo di tutti i bambini terminata la scuola. Fin da piccolino inizia a scorrazzare nei cosiddetti potreros, fango e speranze racchiusi in pochissimi metri. È su quegli appezzamenti di strada che in America Latina s’inizia a prendere confidenza e familiarità con la fisica del pallone. Astuzia, dimestichezza e gambetas. Una scuola di vita scabra, in cui imparare a incassare e restituire colpi. «Il nostro era un quartiere molto umile – puntualizza –, ma ogni dove si respirava calcio: ho trascorso ore e ore a consumare la fascia sinistra dell’oratorio». Non del tutto appagata, la comitiva di amici rincasava e continuava a rincorrere quella scalcagnata (e, molto spesso, sgonfia) sfera in cortile. Era sufficiente un pallone ad animare le giornate nella periferia della capitale... Un campetto era considerato una vera e propria sciccheria, che il padre, di professione muratore, realizzò per la gioia di tutti i bambini del loro rione.
Considerato una promessa del movimento calcistico nazionale, Sergio inizia lentamente a cullare sogni di gloria. Da poco compiuti undici anni è infatti scelto fra altri duemila ragazzi per formare la selezione che rappresenterà la madre patria nel Mundialito in Ecuador. Un’esperienza nuova, ma al contempo bellissima. L’onore del professionismo spetta però a pochi eletti. «Cercavo di barcamenarmi fra scuola e allenamenti, quando una grave crisi finanziaria ha accresciuto le difficoltà della mia famiglia. A quattordici anni ho dunque iniziato a lavorare come postino: ogni giorno percorrevo 30-35 chilometri in sella a una bicicletta, mi allenavo. E poi alla sera ritornavo sui banchi di scuola. Il calcio che conta sembrava sfumare, ma (fortunatamente) non ho mai smesso di giocare a pallone». Il nostro interlocutore partecipa infatti all’ennesimo torneo di calcetto e viene chiamato dal Remedios de Escalada, più comunemente noto con il nome di Talleres, che allora militava nella Serie C argentina. Trascorsi tre anni, «la società mi ha dunque offerto lo stesso stipendio che percepivo recapitando posta, ma per giocare da professionista: in meno di nove mesi ho conquistato due campionati». Questo è l’inizio di una grande storia. Già, perché Sergio viene poi ingaggiato dal Deportivo Español, in Serie A, piccola realtà amministrata dal Re di Spagna, dove assiste ai primi anni di carriera del connazionale (e amico) Diego Milito e affronta in più occasioni Maradona «una persona speciale, capace di riscaldare gli spalti e l’ambiente circostante», prima di accasarsi nella squadra della sua città natale, il Racing. Qui pone fine a una lunghissima astinenza durata oltre un trentennio per i colori biancocelesti conquistando l’Apertura, il massimo torneo, dinnanzi a quasi cinquantamila spettatori. La società era tuttavia sull’orlo del fallimento. Così, l’ora 55enne, decide di oltrepassare l’Oceano e cercare maggiore fortuna in Europa.
Dall’America Latina a un’altra cultura. Cremona, Verbania e infine... Bellinzona. I ricordi sono ancora ben impressi nella memoria. Due anni «stupendi, ringrazio tuttora Marco Degennaro per la fiducia riposta nei miei confronti – commenta sempre l’ex terzino –. A 35 anni ero già in età avanzata, ma fisicamente in forma. Perciò mi è stata offerta questa opportunità: Baldo Raineri (all’epoca coach dei granata) mi faceva galoppare su tutta la fascia, siccome impostava la difesa a tre». Il latino-americano si trasferisce poi più a sud, a Locarno, prima di chiudere la sua carriera. Non avendo più nulla da dimostrare come giocatore, decide di rimanere in campo in qualità di allenatore. «Ho sempre avuto quest’aspirazione. Non tutti riescono a vivere della loro passione, perciò mi considero un privilegiato. E, così, ho accettato la prima offerta dalle giovanili della Pro Sesto». Con l’entusiasmo che caratterizza Sergio, effettua questo primo periodo di tirocinio mostrando il suo valore. «L’esperienza è molto importante. Il calcio progredisce, ma lo spazio a nostra disposizione rimane quello. La preparazione e la maggiore velocità influenzano il gioco. Non la sua essenza». Passati numerosi altri settori giovanili, tra cui quello del Guadalajara, attracca sulla panchina della Berretti dell’Inter, con cui conquista lo Scudetto. La compagine nerazzurra ricopre un ruolo cruciale nella famiglia Zanetti, che trasuda calcio da ogni poro. Già, perché il fratello Javier è stato (ed è tuttora) una bandiera della società meneghina. Javier ha sempre lodato Sergio per la sua umanità; un esempio dentro e fuori dal rettangolo da gioco, capace di aiutarlo nei momenti difficili e accompagnarlo nel corso della sua carriera, e non. «Beh, mi fanno sempre molto piacere queste parole… Siamo molto uniti. Ho sempre ricordato di non dimenticare le nostre origini, nonostante tutti i soldi del mondo. E sono molto orgoglioso di quanto ha raggiunto». L’ex capitano dell’Inter si è tuttavia ‘macchiato’ di uno scippo, il soprannome Pupi. «Sì, effettivamente – ride – era il modo in cui mi chiamava mia moglie quando ci siamo conosciuti. Un mio ex allenatore del Deportivo, passato ad allenare Javier nel Banfield, decise di chiamarlo in questo modo così da distinguerlo da altri giocatori. Lui poi l’ha reso celebre». Anche i figli Nicolàs e Federico hanno ereditato l’amore per tacchetti e palloni, ma, confida, sono liberi di scegliere la loro strada, senza pressioni. Il primogenito ha comunque scelto di nascere a pochi minuti dallo scadere di una storica vittoria della squadra in cui militava il papà sul River Plate. «Ho ricevuto la chiamata, e mi sono precipitato all’ospedale a bordo dell’auto di mio padre», ricorda.
Come detto in precedenza il 55enne è stato chiamato a condurre il Bellinzona in acque più tranquille sino alla fine del campionato. «La piazza della capitale mi ha sempre dimostrato molto affetto perciò spero di ricambiare. Conosco l’ambiente, e la tifoseria merita di vedere la squadra dare l’anima a ogni partita come lo scorso weekend al cospetto della capolista». Un compito non facile, visto anche il poco tempo a disposizione. «Non mi aspettavo di ritrovare i granata nei bassifondi della classifica data l’importante storia. Ma proprio quando le cose vanno male si vede se la squadra è unita, ha personalità e fame. Ciò che si aspetta il tifoso». Sacrificio e umiltà, valori alla base di ogni risultato. «Il potenziale non manca. Ho percepito un gruppo molto disponibile, cercherò di entrare in sintonia con i ragazzi e motivarli toccando le corde giuste». D’aiuto sicuramente la presenza di Cocimano. «Ho un ottimo rapporto con Nando, ci confrontiamo regolarmente. Non intaccherò il lavoro effettuato negli ultimi mesi, ma proverò a lasciare la mia impronta. Dovrò essere intelligente e trovare la chiave fra la strada finora imboccata e la mia filosofia». Una filosofia improntata maggiormente alla fase offensiva, «nel fare la partita e non aspettare, mettendo in atto le contromisure adeguate per non essere puniti. L’intenzione è di mantenere la categoria senza timori poi vedremo se ci sono i presupposti per continuare. Tutti sono importanti, ma nessuno è indispensabile: chi darà il massimo in settimana giocherà, anche i giovani», conclude Zanetti. Il primo incontro ufficiale del 55enne sarà come detto domenica al Comunale.