Trent’anni fa, in una gara di playoff del campionato greco di basket, si verificò uno degli incidenti più folli e più tragici della storia dello sport
L’uomo, un colosso di oltre due metri per duecento chili, guarda incuriosito gli amici infilare le esche sugli ami. Tetraplegico, se ne sta ingabbiato nella sua sedia a rotelle da oltre tredici anni. Alla sua richiesta, una delle assistenti che lo segue ovunque gli infila in bocca una sigaretta, gliela fa accendere e gliela toglie dalle labbra. Per i cinque minuti seguenti, a un suo segnale, la ragazza torna regolarmente somministrargli catrame e nicotina. Siamo al largo dell’isola di Rodi, e la barca è stata noleggiata, per una giornata di pesca e grigliate in alto mare, dai dirigenti del Panionios, squadra di basket della periferia di Atene. A bordo c’è musica, vino, birra e risate. Ma poi, all’improvviso, la festa si fa tragedia: il cuore dell’uomo invalido, tremendamente affaticato, si arrende dopo lo sforzo immane che gli è toccato produrre così a lungo. Gli amici cercano in tutti i modi di intervenire, ma invano. È il 28 giugno 2006 e il gigante, anch’egli dirigente ed ex giocatore del club, muore sotto il sole di rame incandescente dell’estate greca. Aveva quarantadue anni e mezzo e il suo nome era Slobodan Jankovic, ma da sempre tutti lo chiamavano Boban. Era nato a Lucani, nella Serbia centrale, ai tempi della Jugoslavia.
Alto più di due metri già alle scuole medie, il giovane Boban viene scoperto dagli osservatori belgradesi e debuttò nella prima squadra della Stella Rossa nemmeno diciassettenne. Ala di sostanza ma pure dalle buone mani, del club della capitale divenne un elemento imprescindibile per oltre un decennio. Il fatto che non abbia mai giocato in nazionale non deve trarre in inganno: a quei tempi, una sola squadra doveva infatti raccogliere i migliori serbi, i migliori croati, i migliori bosniaci e i migliori sloveni, senza contare macedoni e montenegrini.
Nell’estate del 1992, raggiunti i ventotto anni necessari per poter lasciare la Jugoslavia, firma appunto per il Panionios, compagine del sobborgo ateniese di Nea Smyrni di cui nel giro di pochi mesi diventa elemento imprescindibile e idolo dei tifosi, che con lui possono finalmente sognare di vincere un titolo nazionale, trofeo che finiva sempre nel carniere di Olympiakos, Aris Salonicco e soprattutto Panathinaikos. Ed è proprio durante una partita contro il Panathinaikos che il 28 aprile del 1993, esattamente trent’anni fa, la vita di Boban Jankovic nel giro di cinque secondi viene stravolta per sempre.
Il parquet del vetusto palazzetto del Panionios – come spesso succede in periferia – oltre alle linee del basket reca pure quella del volley, ma a colpire maggiormente sono i tre cerchi: quello di centrocampo e quelli posti al vertice delle due aree, che sono stati trasformati in preservativi giganti su cui campeggia una scritta che esorta a fermare l’avanzata dell’Aids, peste di fine millennio che, in quegli anni, miete vittime e preoccupa più di ogni altra emergenza. Protezione, protezione, protezione ovunque: è la parola d’ordine in quell’epoca di incontrollata diffusione del virus. Peccato però che a mancare, in quel palasport, siano proprio le protezioni, come vedremo prestissimo.
Il match fra Panionios e Panathinaikos è valido come gara-4 delle semifinali dei playoff, e la corazzata biancoverde è avanti nella serie 2-1: Boban e compagni, dunque, sono obbligati a vincere, se vogliono continuare a sognare il titolo. Le cose, però, non stanno andando troppo bene: a 6 minuti dal termine, infatti, gli ospiti sono avanti 56-50. Jankovic viene servito nel cuore dell’area, fa un palleggio, due avversari lo raddoppiano, ma riesce comunque a tirare da sotto e a segnare. Per farlo, però, Boban si è aiutato spingendo il più vicino dei rivali. Il fallo di sfondamento che viene fischiato rende nullo il canestro: per quanto fiscale, è una decisione che può starci, eccome. Jankovic però stenta a credere che gli abbiano davvero fischiato il quinto fallo, quello che – secondo il regolamento – lo avrebbe tolto dal match, lasciando i suoi compagni privi del suo valido apporto a tutto campo.
E così, dà in escandescenze: dapprima si stringe la testa fra le mani, mossa classica per manifestare incredulità, e poi – sciaguratamente – si scaglia come un toro Miura contro il piede del canestro, che colpisce con una craniata pazzesca. Di solito, quella parte è ricoperta di gommapiuma per attutire eventuali collisioni fortuite. Ma lì, nel palazzo del Panionios, si sono dimenticati di montare lo strato di imbottitura. Oppure hanno lesinato sullo spessore: fatto sta che l’impatto è tremendo.
Qui il video dell'episodio
https://www.youtube.com/watch?v=tdP7ybWPI1k
È come se a Boban avessero staccato la corrente, le sue gambe si afflosciano sotto i suoi 110 kg di peso morto. Cade di faccia – dato che anche le braccia non rispondono più ai comandi – e il tonfo sul parquet è agghiacciante. Sotto il viso, rimasto inchiodato al pavimento, subito si allarga una macchia di sangue: ha spaccato naso e denti e ferite gli si sono aperte al labbro e alle arcate sopraccigliari. Compagni e avversari, dopo un attimo di comprensibile smarrimento, arrivano a soccorrerlo. Ad avvicinarsi è anche il cameraman di bordocampo, che documenta ogni cosa. Boban, mani di fianco al capo con le dita rattrappite come artigli, ha già capito tutto. ‘Non sento più le gambe, non sento più le mani’, grida. ‘Cazzo, sto morendo’.
I sanitari, invece di immobilizzarlo immediatamente, lo fanno rotolare su se stesso spingendolo e sballottandolo senza alcun riguardo, perché la loro preoccupazione è fermare le emorragie. Chissà, non lo avessero fatto rotolare come un vecchio tappeto, forse i danni a colonna vertebrale e midollo spinale non si sarebbero rivelati così gravi: frattura della terza vertebra cervicale, lesione irreparabile del midollo spinale e spietata diagnosi di tetraplegia. Ma nemmeno bisogna colpevolizzare eccessivamente quei poveracci: alla base del dramma che li ha colti del tutto alla sprovvista rimane la sconsideratezza di Jankovic, il suo malaugurato abbaglio di follia che, in un secondo, gli ha rovinato la vita. Il giocatore, 29 anni e mezzo, non perde mai conoscenza, viene portato via in barella mentre urla disperato perché è perfettamente consapevole di cosa è successo al suo fisico, a quel corpo d’atleta che fino a due minuti prima aveva fatto la sua fortuna ma che d’ora in avanti sarà la sua prigione perpetua. ‘Era meglio se moriva subito’, dirà mesi dopo, non senza una certa dose di ragione, uno dei medici del club.
In seguito ci furono incubi senza fine e vari interventi chirurgici, tutti falliti. E l’abbandono da parte della moglie, che se andò portandosi dietro il figlioletto di tre anni appena compiuti quando si accorse che tutti i loro soldi si erano volatilizzati per le operazioni, le cure e l’assistenza all’invalido, che doveva essere totale e ininterrotta. A tendere una mano a Boban furono i compagni di squadra, che provvidero a coprire buona parte delle spese. E il club – il Panionios – che non appena fu possibile gli offrì un impiego come dirigente.
‘Ero come un’automobile che qualcun altro stava guidando’, ebbe modo di ripetere più volte Jankovic negli anni seguenti ricordando quello sprazzo di follia con cui mandò all’aria vita, sogni e speranze. ‘Ancora oggi non riesco a capire cosa mi abbia spinto a fare quella pazzia. È molto difficile cercare di addormentarsi la sera sapendo che il giorno dopo ti sveglierai per provare soltanto dolore, e che questa cosa continuerà all’infinito. Non posso liberarmi da questa condizione, e nemmeno saprei come farlo. È sapere dell’esistenza di mio figlio che mi dà la forza per andare avanti, anche se purtroppo non posso stargli vicino. Lui è l’unica cosa per cui vale la pena combattere’.
Prima di morire nel corso della gita in barca in apertura di pagina, Boban fece in tempo, pur con tutte le difficoltà del caso, a diventare coach di squadre minori. Sognava di allenare un giorno Vladimir, suo figlio. Intanto però fumava come un camino, e ingrassava fino a raddoppiare la sua stazza già oversize, finché – come detto – il suo cuore gettò la spugna. Il piccolo Vladimir, ad ogni modo, il basket ce l’aveva nel sangue, e nulla e nessuno poté impedirgli di diventare un buon giocatore. Trentatreene, non ha ancora smesso: ha vestito maglie prestigiose, fra cui quella rossoblù del Panionios e quella biancoverde del Panathinaikos, con cui – col numero 8 sulle spalle proprio come suo papà – riuscì a vincere quello scudetto greco che Boban sognava di conquistare la maledetta sera del 28 aprile 1993.