Il collasso della banca, come altri scandali e fallimenti precedenti, ridimensiona una percezione di sé permeata dall’eccezionalismo
“Una volta, figliolo, qua era tutto Credito Svizzero”. No, non ci aspettiamo veramente che nel futuro dialogo tra generazioni possa infilarsi una nostalgia del genere. Però il collasso di una delle principali banche elvetiche infligge l’ennesimo colpo all’orgoglio nazionale, alla percezione di sé d’un Paese che ogni volta – si pensi all’ancora più doloroso fallimento di Swissair nel 2001 – si scopre più vulnerabile e ordinario di quanto non faccia piacere ammettere. Stavolta poi parliamo di una banca il cui padre fondatore, Alfred Escher, è storicamente associato al traforo del Gottardo: se c’è un simbolo potente per l’immaginario collettivo svizzero, è proprio quello che lega la montagna a chi la trapassa per unire la Confederazione.
Quando è sottoposto a certi bruschi risvegli, l’inconscio collettivo – nel tentativo comprensibile e umanissimo di proteggere una certa autostima – mette in campo alcune paradigmatiche formazioni reattive: si incolpano la globalizzazione, il management straniero, la perdita d’una più o meno leggendaria ‘svizzeritudine’ alla quale certuni vorrebbero ritornare per schivare le incertezze, a maggior ragione in un’epoca in cui, come diceva il sardonico Yogi Berra, “l’avvenire non è più quello d’una volta”. Ma quali sono le implicazioni culturali, sociali, politiche di queste dinamiche? Ci aiuta a capirlo Sandro Cattacin, professore di Sociologia all’Università di Ginevra.
Professor Cattacin, la rappresentazione di sé elvetica – un po’ come quella americana – si direbbe spesso eccezionalista: la Svizzera come ‘città sulla collina’, come faro di ricchezza, pace e democrazia in un mondo minaccioso e selvaggio. Un’immagine che fa il paio con un certo anelito isolazionista. Possiamo dire che terremoti come quello del Credit Suisse costringono a una percezione di sé un po’ più realistica?
Cinquant’anni fa ho avuto modo di assistere in prima persona a un momento in cui questa rappresentazione superba, questo credersi superiori agli altri era dominante, dimenticandosi l’aspetto parassitario del boom svizzero, dipendente da una posizione eccentrica che ha permesso di sfruttare unilateralmente manodopera e capitali stranieri. Oggi direi che questa falsa convinzione – che anima la velleità di salvaguardare una Svizzera più fantastica che reale – è stata effettivamente ridimensionata dall’esperienza. Appartiene però ancora a quel 30-40% più conservatore e nazionalista del Paese. Ciò crea una dicotomia rispetto a chi invece è più aperto all’Europa e al mondo, alla ‘Svizzera urbana’, che vede nell’accoglienza e nella collaborazione internazionale l’unica possibilità per costruire un futuro libero da posizioni di rendita ormai insostenibili e superate, e nel farlo contesta la retorica eccezionalista.
È anche una dicotomia anagrafica? Chi ha visto il boom è probabilmente più propenso a una certa nostalgia per una nazione più chiusa e ‘protetta’.
In effetti c’è anche un fattore anagrafico, legato all’esperienza del dopoguerra. Allora i lavori più umili furono affidati agli italiani e agli altri immigrati, così che il lavoratore svizzero conobbe un’ascesa sociale generalizzata legata non al merito, bensì proprio a questa congiuntura. Il sociologo conservatore Hoffmann-Nowotny ha analizzato molto bene questa fase nei primi anni Settanta, osservando che il salto nella classe media è stato giustificato a sé stessi rappresentando gli stranieri come inferiori. Questo discorso di supremazia dal Dopoguerra si trascina oggi in chi coltiva posizioni più nostalgiche, e contribuisce alla percezione di sé che certi scandali e crack rimettono in discussione.
Va detto che i colpi a questa narrazione, per usare una parola di moda, son stati tanti e non solo dovuti al crollo di certi monumenti della vecchia economia: vi è stato anche il lavoro ‘erosivo’ di storici e altri studiosi. Fece scalpore l’opera del sociologo Jean Ziegler, che denunciò la Svizzera che “lava più bianco” come centro mondiale del riciclaggio di denaro e della collusione con regimi e business riprovevoli. Il Rapporto Bergier avrebbe poi illuminato i compromessi (in odor di profitto) della Confederazione col nazismo. Ogni volta che sono emerse queste ricerche, però, la reazione prevalente almeno in un primo tempo è stata quella del rifiuto, della condanna di presunti ‘diffamatori’.
In un certo senso, il lavoro di Ziegler è arrivato nel momento più sbagliato per ottenere accoglienza, quando a metà degli anni Settanta una grave crisi economica era stata affrontata rispedendo in patria i lavoratori stranieri: 210mila italiani tra il ’75 e il ’77 sono letteralmente spariti dal nostro mercato del lavoro. Si era così salvata la rappresentazione della Svizzera come isola paradisiaca nell’oceano dei disordini sociali, della disoccupazione e degli anni di piombo. Ma ecco che arriva Ziegler a spiegare che quell’Eden è dovuto ad affari come quelli col Sudafrica e al riciclaggio. Non stupisce che abbia scatenato reazioni rabbiose. È successo anche con chi illustrava lo sfruttamento dei lavoratori stranieri e le sue conseguenze tragiche, come nel caso della sciagura di Mattmark del 1965 (quando 88 operai impegnati nella costruzione di una diga furono uccisi da una valanga che ne investì le baracche, ndr). Successivamente – con il Rapporto Bergier e altre ricerche che illustravano complicità col nazismo e determinate mancanze nell’accoglienza dei profughi – c’è stata un’analoga reazione di lesa maestà.
C’è un elemento particolare che colpisce nella reazione alla fine del Credit Suisse: una certa propensione a incolpare gli stranieri per i propri mali si trasferisce ora dal classico ‘migrante con lo smartphone’ di conio leghista al management globale della finanza, ‘mercenari’ incuranti del destino nazionale d’un Credit che di ‘Suisse’ avrebbe ormai poco. Nella critica non è difficile riscontrare una componente xenofoba, con l’ex Ceo ivoriano Tidjane Thiam facile bersaglio di insulti razzisti. Fermo restando che certi manager paiono avere effettivamente colpe enormi, siamo ancora al ‘noi contro loro’?
Sì, e la cosa non sorprende. Riaffiorano qui certe vene xenofobe, unite all’illusione di una Svizzera che può “farcela da sola”. Un falso mito, ovviamente, visto che la Svizzera non ce l’ha mai fatta da sola e deve la sua fortuna al costante contributo di risorse, idee e personalità dall’estero: Brown-Boveri nasce da un inglese e un italo-tedesco, Nestlé da un tedesco… Eppure si continua a combattere perversamente questa realtà, basata sulle reali necessità di un Paese che ancora oggi dipende dall’apporto creativo degli stranieri. Ma quando c’è un problema, incolpare chi è forestiero e chi innova è una facile scorciatoia. A questo si aggiunge ovviamente il rifiuto di riconoscere un semplice fatto: l’integrazione globale del sistema finanziario, pur con tutti i suoi limiti, i suoi errori e le sue storture.
Certe demonizzazioni sono anche funzionali a quella classe dirigente residuale che arriva dai “bei tempi andati”, nei quali una ventina di famiglie sedeva in tutti i consigli d’amministrazione al cuore del Paese. Si direbbe che vi sia una sorta di concorrenza ideologica al vertice, simmetrica a quella che mette le persone più vulnerabili l’una contro l’altra ai piedi della piramide sociale. È così?
Le prime avvisaglie di queste tendenze si riscontrano negli anni Ottanta, con le aperture verso l’Europa e il mondo che si erano rese necessarie per restare forti e competitivi. Tali aperture hanno messo in crisi un sistema di potere – non solo economico, ma anche politico – alquanto familistico, storicamente legato alla creazione delle strutture istituzionali dello Stato-nazione. Si pensi ad esempio allo strettissimo legame – peraltro fortemente patriarcale – tra carriera bancaria, politica e militare. L’apertura, resa necessaria dalle competenze totalmente inadeguate dei comandanti-manager e del modello gerarchico classico, ha generato forti resistenze e conflitti.
La tentazione dunque, quando qualcosa va storto, è quella di richiudersi nel passato?
Quando c’è una crisi, in Svizzera come altrove, le prime reazioni sono spesso conservatrici: si vuole tornare a fare le cose “come una volta”, smettere di sperimentare. Ma è una scelta destinata al fallimento, perché non si può più tornare a ricette anacronistiche.
Resta il fatto che la stessa reazione all’incertezza si è vista – non solo a destra, ma anche a sinistra – con la crisi ucraina: in questo caso i bei tempi andati che si vagheggiano sono quelli di una neutralità più mitologica che reale, rappresentata come scelta di valore più che come imposizione dettata per secoli dall’architettura del sistema internazionale.
La rappresentazione semplificata e onnipresente della neutralità unisce ora l’anima isolazionista fomentata dalle formazioni più di destra – particolarmente forte nelle regioni rurali e meno propulsive dal punto di vista economico e delle idee – con quella di un certo idealismo pacifista, radicale, del “porgere l’altra guancia”. Ecco allora che nasce una coalizione un po’ pericolosa tra gli estremi, come quella che d’altronde vediamo anche in altri Paesi che non conoscono la neutralità.
Va detto che nei momenti di difficoltà anche i media internazionali ci mettono del loro: il collasso del Credit Suisse consente di esercitare una sorta di Schadenfreude, di gioia per le disgrazie altrui, indulgendo in leggende nere e facili ironie sui “perfettini” svizzeri. Si può dire che anche all’estero si cade spesso in una visione stereotipata della Confederazione, ma secondo cliché in negativo, speculari a quelli eccessivamente lusinghieri gelosamente custoditi da alcuni svizzeri?
A dire il vero, mi pare che questa percezione sia dovuta forse a un’eccessiva suscettibilità: chi critica la Svizzera viene subito sbattuto in prima pagina qui da noi. La verità è che del Paese si parla molto poco all’estero, al netto dell’immaginario turistico di stampo soprattutto britannico. Dubito che in Sicilia o in Vestfalia qualcuno si preoccupi davvero della Confederazione. Non c’è dunque una critica sistematica, che se anzi si basasse su una reale conoscenza storica e sociale potrebbe essere ben più virulenta. La Svizzera è vista principalmente come un Paese stabile, tranquillo, che non crea problemi al prossimo. Se c’è uno stereotipo, dunque, non mi sembra affatto negativo. Anche la copertura del caso Credit Suisse mi è parsa orientata a riflettere sull’instabilità globale del sistema finanziario, più che a colpire la Confederazione. Ci sentiamo osservati, ma siamo troppo poco visibili per esserlo. Non c’è dunque ragione per fare del vittimismo.