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«I contribuenti siedano nel Cda di Credit Suisse»

Con l’economista e matematico Marc Chesney parliamo di ‘finanza casinò e dell’importanza non solo di regole, ma anche di nuovi approcci alla materia’

(M.C)
18 marzo 2023
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A giudicare dagli eventi recenti, la finanza si direbbe ancora una volta esposta al cosiddetto ‘butterfly effect’, quella storia per cui il battito d’ali di una farfalla provocherebbe un uragano all’altro capo del mondo. Nel caso della defunta Silicon Valley Bank si è trattato forse più d’un tonfo che d’uno sfarfallio; fatto sta che nel giro di pochi giorni a tremare sono stati i vetri d’un colosso lontano e ben più ingombrante, il Credit Suisse. Com’è successo? Ma soprattutto: perché continua a succedere? Ne parliamo con Marc Chesney, professore di matematica finanziaria all’Università di Zurigo e direttore del suo Centro di competenze per la finanza sostenibile. Il prossimo 30 marzo alle 18.30 Chesney sarà alla Biblioteca cantonale di Bellinzona per una serata pubblica nell’ambito del sesto Festival dell’economia, organizzato dalla Scuola cantonale di commercio.

Professor Chesney, è bastato un "no" saudita all’aumento del capitale in Credit Suisse – un diniego peraltro non nuovo – per spingere l’istituto sull’orlo della bancarotta. Come mai, quindici anni dopo l’ultima grande crisi finanziaria, i piedi delle grandi banche restano d’argilla?

In situazioni di grande instabilità, poche parole possono scatenare gravi crisi. Ma questo è il risultato puntuale di una finanza da casinò, che continua a essere attratta dai soldi facili tramite investimenti ad alto rischio, quali i derivati (prodotti finanziari il cui valore deriva da quello di altri asset, ndr). Ora la Banca nazionale svizzera rassicura circa la liquidità del Credit Suisse, ma le presta 50 miliardi di franchi. Sarei curioso di capire perché a una banca sufficientemente liquida devono essere prestati così tanti soldi. Il rischio ovviamente è che parecchi costi si scarichino sui contribuenti.

Se però la Bns non intervenisse, si rischierebbero conseguenze molto più gravi per l’economia: l’istituto è giudicato ‘too big to fail’, troppo grande per fallire senza travolgere col suo peso l’intero sistema economico. O no?

Sì, ma così è troppo comodo. Il management può correre grandi rischi e se gli va bene incassare premi e prebende, se invece gli va male ci pensa la cittadinanza. Questo non è liberismo, parola con la quale si riempiono la bocca in tanti: perché nel vero liberismo chi corre rischi deve assumersene anche responsabilità e costi, non scaricarli sulla cosa pubblica. A questo punto i rappresentanti dei contribuenti, che si assumono i rischi, dovrebbero sedere nel consiglio d’amministrazione per controllare bonus, salari, strategie e profili di rischio. Parliamo di una banca i cui Ceo hanno ricevuto decine di milioni di franchi nonostante il corso dell’azione perdesse gran parte del suo valore e scoppiasse uno scandalo dopo l’altro: Greensill, Archegos…

Si direbbe che la possibilità dell’intervento pubblico crei un esempio da manuale di ‘rischio morale’: posso osare perché tanto se mi trovo in difficoltà arriva lo Stato a salvarmi. Dal 2009 a oggi, al netto di certe norme sulle capitalizzazioni e la liquidità, non è cambiato nulla?

Ma guardi che neanche sulle capitalizzazioni è stato fatto abbastanza. Se io e lei vogliamo accendere un’ipoteca per comprarci un appartamento qui in Svizzera, ci chiedono di garantire il 20-25% del capitale. Alle banche basta un capitale proprio non ponderato che ammonti al 5-6% dell’investimento per puntare soldi al tavolo verde. Occorre chiedere una maggiore capitalizzazione, come dimostra proprio l’iniezione di liquidità da parte della Bns. Ma occorre anche cercare d’imporre norme più severe sui derivati, sebbene si tratti di un’operazione complessa, visto che in Svizzera possono raggiungere volumi che a volte sono 30-40mila volte il Pil del Paese. Il mestiere degli analisti dovrebbe essere quello di aprire questa scatola nera.

È legittimo sostenere che le stesse banche nazionali abbiano agevolato la crisi alzando i tassi d’interesse?

La scelta di alzare i tassi d’interesse per contrastare l’inflazione ha avuto certamente un ruolo scatenante, nella misura in cui questa mossa svaluta il valore delle obbligazioni detenute a bilancio e di conseguenza riduce gli attivi di istituti già fragili. D’altra parte, è stata proprio la pluriennale politica di tassi bassi o addirittura negativi a incentivare l’indebitamento speculativo che ci ha condotti fin qui.

Negli ultimi tempi la reputazione di Credit Suisse è apparsa sempre più quella della ‘bad bank’, della banca ‘cattiva’, mentre Ubs emergeva come prima della classe. È una forbice destinata ad allargarsi?

Ancora una volta, è come giocare a poker: una volta vinci tu, quella dopo vinco io. Ma alla fine i giocatori compulsivi rischiano sempre di rovinarsi. La bancarotta alla quale assistiamo non è quella di un singolo istituto, ma di un sistema. E le fiches sul tavolo sono quelle dei contribuenti.

Per far fronte alla crisi finanziaria generata nel 1929 e la conseguente Grande Depressione, l’allora presidente Usa Franklin Delano Roosevelt introdusse nel 1933 il Glass-Steagall Act, che separava nettamente le banche d’investimento da quelle ‘tradizionali’. Nel 1999, Bill Clinton abolì la legge. Andrebbe reintrodotto qualcosa di simile, negli Usa come altrove?

Certamente: dal ’33 al ’99 l’America ha avuto meno crisi bancarie di quelle degli ultimi 25 anni scarsi. Una distinzione sarebbe necessaria anche in Svizzera, dove i nostri salari sono depositati presso le stesse grandi banche che poi li investono irresponsabilmente. Il problema è che ciò minaccia anzitutto il ceto medio e lo rende vulnerabile non solo alla povertà, ma anche alle promesse dell’ultradestra.

Al netto di regole e divieti, sono pensabili incentivi a un comportamento più virtuoso? Ad esempio la microtassa sulle transazioni finanziarie – che la vede tra i promotori e per la quale si stanno raccogliendo le firme – che promette tra l’altro di generare un gettito tale da sostituire completamente Iva, imposta federale diretta e tassa di bollo?

Sì, sono pensabili. Per questo la microtassa non piace alle grandi banche, bensì ad alcune più piccole o ‘territoriali’ e meno propense alla speculazione: il capo economista di Raiffeisen ha scritto un articolo un paio d’anni fa guardando con un certo favore a quest’idea. Tassare tutte le transazioni elettroniche automatizzate su cui si basano le ‘scommesse’ a catena della finanza sarebbe anche un modo per disincentivarle. Però questo non piace agli hedge fund e agli altri istituti ai quali non interessano i mercati stabili, bensì quelli instabili, nei quali lucrare sui grandi alti e bassi generati dalla spinta di un enorme numero di transazioni.

Per affrontare questa realtà, però, forse dovremmo ripensare anche la formazione di chi vi opera. Nelle università ci si concentra ancora sulla teoria dell’equilibrio generale. Che fare invece per capire – ed emendare – una realtà che prospera sui disequilibri?

Questo è un problema centrale. È incredibile come si insista su un equilibrio che non si trova da nessuna parte in questa crisi permanente (‘Dalla Grande Guerra alla crisi permanente’ è il titolo di un saggio di Chesney uscito per Mimesis nel 2016, ndr). Inoltre si applicano formulette per ammantare una scienza sociale come l’economia delle parvenze d’una scienza esatta. Così si sdoganano concetti che non corrispondono alla realtà: questo secondo me è scandaloso. Peraltro la matematica, se applicata seriamente, sarebbe molto utile per decostruire i falsi miti imperanti.

Quali concetti dovrebbero allora prendere lo spazio dei grafichetti di microeconomia coi quali si aprono quasi tutti i manuali?

Restando alla microeconomia, dunque al comportamento dei singoli attori economici e dei consumatori, basterebbe finirla d’insegnare che "di più è meglio", che produzione e consumo vanno sempre massimizzati, come se avendo già una Porsche ce ne servisse un’altra. È ridicolo: occorrerebbe introdurre valutazioni di tipo qualitativo, in cui si identifica cosa serve e cosa basta per vivere bene, contribuendo anche, a livello globale, a un minore sfruttamento delle risorse e a una loro minore concentrazione in poche mani: per un Elon Musk che accumula ricchezze incredibili, il 50% della popolazione mondiale deve sopravvivere con al massimo 5,5 dollari al giorno.

Qualcuno l’accuserà di moralismo: dopotutto un forte impatto sulla sostenibilità globale – ecologica e non – ce l’hanno proprio quei popoli che consumano di più per uscire dalla miseria; persone che non pretendono la seconda Porsche, ma la seconda ciotola di riso. Non vorrà mica fargli il pistolotto sulla decrescita felice…

Non è affatto questo il punto. Si tratta di misurare l’investimento e la produzione che meritano risorse aggiuntive, a differenza della produzione ‘tossica’. Invece di fissarsi sul prodotto interno lordo – nel quale le bombe atomiche sono conteggiate alla stregua dei pomodori – bisogna esercitare un maggiore discernimento: viviamo meglio quando abbiamo più scuole, farmaci, cibo sano, non quando questi mancano ma la loro scarsità è mascherata dal valore degli armamenti.

Proprio per agevolare un certo discernimento sono emersi prodotti finanziari ‘verdi’: ad esempio i fondi Esg, che dovrebbero offrire la possibilità di investire su imprese sostenibili dal profilo dell’ambiente (environment), delle ricadute sociali (social) e delle modalità gestionali (governance). L’Economist però invita a non fidarsi. Lei che ne pensa?

In effetti c’è molto greenwashing (ecologismo di facciata, ndr). Con il dottorando Adrien-Paul Lambillon abbiamo fatto una ricerca sui fondi europei presentati come molto sostenibili – i cosiddetti fondi Articolo 9 – e abbiamo scoperto che non sempre lo erano: dentro ci abbiamo trovato addirittura costruttori di armi di distruzione di massa. Quindi anche su questo fronte occorre fare molta attenzione, perché spesso gli interessi di marketing nascondono veicoli di finanziamento per realtà tutt’altro che ‘verdi’ e ‘sociali’. Credit Suisse incluso.