Al Tribunale penale federale di Bellinzona si è aperto il processo all’uomo già condannato e poi scagionato per riciclaggio. ‘Voleva solo il profitto’.
La brochure della linea di prodotti offerti ai bar e un pacco da un chilo di caffé, come dimostrazione della provenienza di un’importante eredità – circa un milione e mezzo di franchi – depositata su un conto andato disperso. Elementi che sarebbero comunque bastati a un ex fiduciario del Mendrisiotto per mettersi prima alla ricerca del conto e poi in affari con dei personaggi legati al clan Martino, organizzazione n’dranghetista da cui in realtà arrivavano i soldi. L’uomo però – va subito precisato – è sempre stato all’oscuro della provenienza illecita del denaro, come afferma la sentenza del 13 gennaio 2022 del Tribunale federale. L’ex fiduciario (che nel frattempo si è tolto dall’albo e non esercita più la professione) era stato condannato in prima istanza dalla corte del tribunale penale federale a una condanna di 3 anni per riciclaggio aggravato, con sei mesi da espiare. Sentenza, appunto, ribaltata dai giudici di Mon Repons secondo i quali "dei soldi sporchi non sapeva nulla". Ora un nuovo capitolo, con l’uomo chiamato nuovamente alla sbarra per rispondere dei reati (decisamente di altro tenore) di carente diligenza in operazioni finanziarie e diritto di comunicazione, falsità in documenti e infrazione alla legge federale sugli stranieri, e infine inganno nei confronti dell’autorità. «Disponeva di una formazione universitaria, era iscritto all’albo dei fiduciari e aveva esperienza. Tutti gli elementi sufficienti per accorgersi della gravità della sua condotta», ha affermato il procuratore federale Davide Francesconi, promotore dell’accusa insieme a Stefano Herold, lo stesso procuratore federale che aveva sostenuto l’accusa nel precedente processo.
«Ho agito rispettando quelli che erano gli standard in vigore in quel periodo», ha spiegato l’imputato alla Corte del Tribunale penale di Bellinzona presieduta dalla giudice Fiorenza Bergomi (giudici a latere Monica Galliker e Alberto Fabbri). «Capisco che con ‘gli occhi’ di oggi si chiederebbero le dichiarazioni fiscali. Ma all’epoca dei fatti (tra il 2012 e il 2014 quando è stata aperta l’inchiesta, ndr.) era normale che entrassero soldi in Svizzera senza un contratto o un documento formale. Era un periodo in cui il nero e i crediti su operazioni immobiliari fatte all’estero erano la normalità. Volevo solo acquisire un cliente». Il fiduciario, rispondendo alle domande della giudice, ha anche affermato di non essersi fatto insospettire dalla presenza, quel giorno in ufficio, di un numero considerevole di persone. «Capitava spesso che i potenziali clienti arrivassero accompagnati». L’imputato ha comunque ammesso parte dei reati contestati: «Per la compilazione di un formulario mi sono autodenunciato. Ho sbagliato, sono stato un po’ leggero. In alcune operazioni successive ho cercato di portarmi a casa dei vantaggi». Nei suoi confronti i procuratori federali hanno chiesto in aula una pena di 12 mesi sospesi con la condizionale.
«È stato l’ideatore di tutte le transazioni del denaro», ha spiegato il procuratore federale Stefano Herold. «Ha allestito e fatto allestire gli ordini di trasferimento che l’avente diritto di firma ha poi sottoscritto. Senza di lui non sarebbero stati in grado di manovrare il denaro, trasferito poi a società all’estero e concludere l’acquisto di un edificio a Chiasso». Il procuratore ha quindi rimarcato che l’obbligo di verifica non è stato adempiuto e che il reato si sarebbe consumato anche nel caso in cui la somma di denaro non fosse di origine illecita. «La sua logica era che gli accertamenti fino a che non aveva acquisito il cliente erano tempo sprecato. Ma le verifiche non le ha fatto nemmeno una volto acquisito il cliente». L’imputato aveva aiutato a installarsi in Ticino anche un uomo di fiducia del clan Martino, attivo nella gestione del denaro e con l’intenzione di estendere ‘gli affari’ anche al di qua del confine, come ribadito dal Tf che specifica come questi elementi fossero sconosciuti all’ex fiduciario. Affiliato al clan che ha accettato la pena di 5 anni e mezzo inflitta nei suoi confronti nel 2017. «Era l’ex fiduciario l’unico con le competenze necessarie per cercare di normalizzare la situazione, attraverso una richiesta del permesso di soggiorno che si basava palesemente su presupposti inesistenti, come l’abitazione fittizia e gli stipendi», ha detto Francesconi. Domani la parola passerà alla difesa dell’uomo rappresentata, come in passato, dall’avvocato Mario Postizzi.