L'intervista

Fra la via Emilia, il Ticino e il Blues: Marco Marchi

Stradellino di nascita, ticinese a tutti gli effetti, è in terra elvetica che ha coltivato il suo Swiss Blues Award, massimo riconoscimento del settore.

Marco Marchi
(www.marcomarchi.ch)
4 gennaio 2023
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«Sono andato a Basilea con mia moglie, con in tasca la mia seconda nomination, che già era tanta roba. Hanno fatto il mio nome e sono rimasto basito. Una grande emozione. C’è stata una festa, è stato molto bello». È il riassunto di quanto accaduto lo scorso 20 dicembre a Basilea durante la prima serata del locale Bluesfestival, che ospita ogni anno la consegna dello Swiss Blues Award, il massimo riconoscimento svizzero per un bluesman. Grande emozione anche per uno navigato come Marco Marchi, che con i suoi Mojo Workers rappresenta un punto fermo della scena musicale elvetica. Il premio si aggiunge alla vittoria, nel 2011, dello Swiss Blues Challenge, producendo una doppia certificazione di qualità.

A Basilea, nell’enorme sala congressi del Volkhaus Hotel nel quale si tiene il Bluesfestival, a contendersi il titolo con Marchi c’erano quest’anno Hendrix Ackle, tastierista di Philipp Fankhauser, e Justina Lee Brown, nomi noti a queste latitudini, scelti da una commissione composta da una decina tra direttori artistici e addetti ai lavori. Dopo un tale bagno di consensi, comunque, poco pare essere cambiato nella vita del bluesman: «Sono esattamente quello di prima, continuo la mia strada musicale come ho sempre fatto. Chiaramente, un premio come questo ti regala una visibilità e uno slancio ulteriori, è un incoraggiamento a proseguire. Quando gli altri te lo dicono in questa maniera, la strada è tracciata».

‘O ce l’hai o non ce l’hai’

Chiedere cosa sia il blues per un bluesman è argomento che si porterebbe via giornate intere. «Parlare di blues – premette Marchi – è come parlare di jazz, pop e rock, il termine è abbastanza vago e comprende diverse strade e interpretazioni. Per quel che mi riguarda, io mi rifaccio al blues degli anni ’20, molto ragtime, piedmont style, fino ai primi anni del Chicago blues». Volendo mettere tutto in dodici sintetiche barre: «Per me il blues è la massima espressione musicale della sofferenza umana. È nato in questi termini, poi ha ricevuto le debite influenze. È un genere musicale per il quale non puoi far finta, o ce l’hai o non ce l’hai, e siccome è uno stato d’animo che si esprime musicalmente, a volte c’è e altre volte non c’è. Ma non si può fare finta. Se non hai coordinate tue interne, giuste per suonarlo, produrrai un surrogato del blues, un facsimile, che può anche funzionare. Ma il blues vero devi averlo dentro». Si può coltivare, dunque, o ci nasce? «Puoi nascerci, ma puoi pure arrivarci tramite un percorso. Io ho cominciato a suonare da ragazzino, innamorandomi del rock, di Jimi Hendrix, Ritchie Blackmore dei Deep Purple, per poi scoprire il blues. Ho fatto il professionista nei primi anni Ottanta, suonando tanti generi musicali differenti per portare a casa lo stipendio, ma il blues mi è sempre rimasto dentro».

Fisarmoniche

Marco Marchi viene da Stradella, patria della fisarmonica in provincia di Pavia. Fu lì che il trentino Mariano Dalla Pè, stradellino d’adozione, iniziò a produrre lo strumento nella propria bottega. Di quell’epopea musicale scrisse anche Paolo Conte ne ‘La fisarmonica di Stradella’, dall’album del 1974. «Mia madre faceva l’accordatrice di fisarmoniche quando ancora non esistevano gli accordatori», ricorda Marchi. «Tra gli anni ’50 e ’60, Stradella era un paese di 10mila abitanti che dava da lavorare a quasi 5mila persone. A quei tempi c’era tanta musica. Solo a Piacenza, erano iscritte alla Camera del lavoro 64 orchestre. Quando un musicista aveva bisogno di racimolare un po’ soldi, sapeva a chi chiedere».

Per quanto in Marchi sussista un orgoglio stradellino, «sono in Ticino da 17 anni – dice – e musicalmente, in particolare nel blues, tutto è nato qui. I Mojo Workers, inizialmente, erano per metà ticinesi e per metà basilesi. Mi ritengo a tutti gli effetti un musicista ticinese». Un ticinese che da tempo coltiva un progetto in lingua italiana, ma che negli ultimi quattro anni ha rallentato di molto l’attività. Mentre si curava «un po’ con la chemioterapia e un po’ con la musica», ha scritto canzoni per le quali ha sentito l’esigenza di ricorrere alla lingua italiana: «Ora mi sto occupando di un tour 2023. Usciamo ‘saccagnati’ da un periodaccio. Ho parlato con molti colleghi, noi del settore musicale non ci siamo ancora ripresi del tutto. Ma il progetto in italiano è lì. Presto uscirà».

‘E così in Svizzera suonate il blues…’

C’è anche un Marco Marchi britannico, che ha abitato in Inghilterra dal 1979 al 1981. Il primo anno, stava di casa a Londra. «Era il momento di John Mayall, ma tutta la scena era impressionante. Arrivavo dalla campagna della bassa padana: ritrovarsi a Londra, dove nella stessa sera suonavano i Police in un posto, i Clash in un altro, e altrove Rick Wakeman degli Yes e i Dire Straits, era una cosa da far girare la testa». Domanda diretta, tanto per farci del male: chi ha visto a Londra Marco Marchi? «Tutti quelli che ho appena citato. Ho visto anche The Who al Wembley Stadium (dopo accurata ricerca: 18 agosto 1979, c’erano pure The Stranglers, AC/DC e Nils Lofgren, ndr) e Frank Zappa due volte al Wembley Theatre».

Quale vincitore dello Swiss Blues Challenge, nel 2011 Marco Marchi è volato a Memphis, all’International Blues Challenge, in nome e per conto della Confederazione. «Siamo stati il primo gruppo a rappresentare la Svizzera, quando gli americani pensavano che qui si facessero solo orologi, cioccolato e piste da sci». "And so you play the blues…", gli hanno detto; "E certo, perché, non si può?", ha risposto lui. «Al contest c’è tanto fermento, poi a Memphis tutto torna alla normalità. Restano il B.B. King’s Blues Club, il Rum Boogie Cafe e pochi altri posti». Il viaggio a Clarksdale, Mississippi, 250 chilometri a sud di Memphis, è un altro dei momenti da ricordare: «Abbiamo visitato i luoghi di Muddy Waters, il Blues Museum dove sono esposte le chitarre di Howlin’ Wolf, di Louise Johnson». Quanto a Howlin’ Wolf: «A Memphis siamo stati alla Sun Records, dove registrava Elvis. Anche lì c’era una chitarra di Howlin’ Wolf: l’ho toccata, mi hanno beccato e redarguito, ma è una di quelle occasioni che capitano solo una volta nella vita…».


Basilea, 20 dicembre 2022