Manca la corrente elettrica, non c’è internet, mancano il riscaldamento e l’acqua potabile. ‘Ma non ci sono i russi, e questa è la cosa più importante’
Un’anziana donna si avvicina al finestrino della macchina. Bussa piano e sorride. La donna dice solo una frase: "Slava Ukraini", gloria all’Ucraina. È il viso di una donna di campagna, invecchiato prematuramente dal lavoro e dalla vita dei campi. Il mondo dei villaggi ucraini è lontano da quello delle grandi città, molto più lontano di quanto si possa immaginare. Qui la povertà è tangibile, mista a una semplicità onesta, lineare. La terra, le mani callose, vecchie macchine Zaz e Zhigulì Lada, con più anni sui loro esausti motori dei figli di queste donne, case con stanze fredde, vestiti semplici. Scialli pesanti e fazzoletti sul capo. Denti d’oro. Le cucine come luogo di ritrovo nel quale mangiare, passare il tempo. Luoghi riscaldati dal calore dei fornelli e delle stufe a legna. Villaggi adorni di alberi da frutto e fiori e monumenti di soldati caduti un tempo lontano e di un esercito che non esiste più, inghiottito dalla nebbia di novembre. Le strade sono fatte di terra brulla impastata di acqua, fogliame e ramaglie. Le campagne ucraine tornano indietro nel tempo, ai nostri anni 60 forse. Niente di più nostalgico e triste allo stesso tempo.
Stiamo scendendo lungo una monotona striscia d’asfalto che scorre a fianco del fiume Dnepr e questa è la regione di Kherson. Fino a pochi giorni fa era quasi interamente sotto il controllo russo. Oggi tutta la parte occidentale a nord del fiume è tornata in mano alle forze di Kiev. I militari ucraini stanno ancora ripulendo l’area da fuggiaschi, ordigni inesplosi e mine. I ponti sono tutti saltati. I genieri hanno messo quelli militari, dove possibile. Poco sotto Mylove, a Novokairy, è impossibile proseguire. Sulla riva del fiume, dove il cemento armato del ponte colpito si sbriciola mescolandosi ai sassi del fiume, ci sono un cappotto, una borsa e un paio di scarpe. Sembra esserci un corpo raggomitolato al suo interno. Da vicino ci si rende conto che sono solo vestiti. Perché lasciare cappotto, scarpe e borsa sul greto del fiume? Forse la donna, perché di abiti femminili si tratta, è morta nell’esplosione e l’hanno portata via. O forse il suo corpo è addormentato per sempre sul fondale del fiume. O forse sono solo vestiti, lasciati da qualcuno per motivi che mai sapremo. Si deve fare comunque marcia indietro.
Poco distante, all’interno del villaggio, c’è un fuoristrada con targa inglese parcheggiato accanto a un edificio in muratura, forse una scuola. O una delle tante case della cultura di eredità sovietica. Uno degli uomini armati dello Zsu, l’esercito ucraino, si chiama ‘Everest’. Così è scritto sul suo giubbotto. Tutti nell’esercito hanno un soprannome. "Non sappiamo ancora quali sono le strade sicure per scendere verso Kherson", dice. "C’è una strada breve e una più lunga. La strada più veloce è anche quella dalla quale potresti non tornare indietro. Ieri due civili sono saltati in aria. Sta a te la scelta". L’unica scelta possibile è fare la strada più lunga. Nessuno vuole morire.
A novembre la luce del sole cala verso le quattro del pomeriggio. Poi tutto si colora di nero. In strade di campagna e soprattutto in una zona di guerra, diventa difficile trovare punti di orientamento e soluzioni sicure per proseguire il viaggio. Qui in buona parte della regione non c’è più corrente elettrica e si vedono solo le stelle, enormi, incastonate nella volta celeste. Si guida piano, con gli occhi puntati a terra. Il terrore è quello di fare la fine dei due civili. Le strade sono piene di rottami, intorno la devastazione della battaglia e di una ritirata che, seppur meno caotica di quella di Kharkiv, disperde mucchi di materiale, camion, casse di legno, bidoni, equipaggiamento militare, mezzi distrutti o guasti, vestiti.
Sulla strada per Borozens’ke due camion militari russi sono stati abbandonati sulla strada. Hanno la Zeta dipinta sui portelloni. Militari ucraini stanno lavorando sul motore di uno dei due. Everest fa da guida lungo sterrati e sentieri, la macchina sobbalza e sbuffa nel seguirlo, cercando di evitare enormi voragini e improvvise gobbe, rialzi, avvallamenti. Altre macchine militari, provenienti da strade non segnate sulle cartine, si uniscono. Poi succede qualcosa.
La jeep di fronte inchioda davanti a quella di Everest e dei suoi uomini. Un soldato scende imbracciando il fucile e avanza urlando, puntandolo contro il parabrezza. La guerra porta regole che si adagiano su meccanismi di sopravvivenza distorti. Secondi di tensione che si cristallizzano all’infinito. Una banale questione di precedenza. Si prosegue a nord e poi ci si ferma in un villaggio. Nessun civile sembra viverci. Soldati sbucano dai giardini delle case, dalle vie laterali, dai boschi intorno. Molti hanno vissuto mesi nei villaggi e nelle foreste adiacenti. Oggi non c’è più nessuna linea del fronte, nessun soldato russo da fronteggiare. Almeno qui, in questi luoghi.
All’interno di una di queste case si ritrovano per mangiare qualcosa. C’è del borscht fumante sulla cucina a gas. Burro, biscotti, un piatto di salo, grasso di maiale speziato simile al lardo, del salame. Alex ha ventitré anni e non ha il fisico del soldato. È minuto, quasi sparisce di fronte ai suoi commilitoni del Nono battaglione. "Sviluppavo applicazioni per i telefoni cellulari. Quando è scoppiata la guerra ero appena entrato nell’esercito. Non ho mai voluto andare al fronte a combattere, mi sono sempre occupato di comunicazioni. Io e altri, molti novellini e provenienti dalla difesa territoriale, siamo stati mandati nella regione di Lugansk, in prima linea. E abbiamo subìto molte perdite. Adesso, fortunatamente, sono tornato a fare il mio lavoro". Insieme a lui c’è un soldato che potrebbe essere suo padre. Si chiama Oles e ha 56 anni. Ha fatto la guerra in Afghanistan nella seconda metà degli anni 80. Ha rivisto suo figlio, anch’esso nell’esercito, solo pochi giorni fa. Sei mesi senza vedersi. Il figlio di Oles adesso è in Donbass, e spera di rivederlo ancora.
Kherson sembrava un obiettivo imprendibile. Tutto è cambiato in una manciata di ore. Le difese russe, che per mesi hanno resistito a bombardamenti e attacchi, sono svanite. Per raggiungere la città la via più breve è da Mykolaiv prendendo l’autostrada M14. Anche qui i russi hanno fatto saltare un ponte. Si deve aggirare un corso d’acqua passando per paesi semidistrutti, per poi ritornare sull’autostrada. I mezzi passano per strade dissestate. C’è anche un convoglio delle Nazioni Unite che porta aiuti umanitari. Bambini salutano sventolando la bandiera ucraina al passaggio dei veicoli. Per loro è ancora un gioco, nonostante la tragedia.
Per i loro genitori no, perché da adulti non possono nascondersi in mondi magici, dove le esplosioni sono tuoni e lampi di un temporale che non accenna mai a finire. Irreale, questa la sensazione che un po’ tutti provano entrando a Kherson, e irreale è ancora oggi per molti dei suoi abitanti vedere soldati ucraini nelle sue strade. Alla faceva l’insegnante di inglese e lavorava alla facoltà di lingue straniere dell’università: "Ho smesso di andarci quando i russi hanno occupato la nostra città. La mia responsabile di dipartimento era una collaborazionista e io non volevo lavorare per lei e per chi ci aveva venduto ai russi. Ora è scomparsa, credo sia andata via con loro. Il giorno della liberazione me lo ricordo bene perché stavo andando a un corso di yoga e ho visto dei soldati senza segni di identificazione o bandiere sulle uniformi. Avevo paura a reagire, perché non sapevo se fosse o meno una provocazione. Così non ho detto nulla, sono tornata a casa e poi sono andata al fiume, perché lì si riesce un po’ a prendere internet, per verificare se fosse vero che i nostri erano arrivati in città e poi ho chiamato un mio amico che conosco sin da bambina, una persona del mio villaggio che adesso è nell’esercito ucraino e gli ho chiesto: ma è vero? La città è libera? E lui mi ha risposto di sì, che la città era sotto il controllo del nostro esercito e che potevo prendere la bandiera e correre in centro. Quando sono arrivata qui in piazza con mio figlio e la sua fidanzata era già sera e c’era un fuoco e intorno al fuoco gente che cantava, gridava e ringraziava il nostro esercito. È stato veramente eccitante e appassionante vivere quelle ore". Alla spera che la guerra finisca il più presto possibile, ma è preoccupata per la sorte di sua madre e suo fratello che si trovano dall’altra parte del fiume, nella zona ancora controllata dai russi. "Sono felice di essere ucraina. Non ho potuto dirlo liberamente per otto lunghi mesi".
Vyacheslav Savchenko è un ex alto ufficiale dello Sbu, i servizi di sicurezza ucraini. Anche lui è di Kherson e quando i russi sono entrati in città, lo scorso primo di marzo, è scappato con sua moglie e i suoi figli. "Metà dei miei ex colleghi hanno tradito", mi diceva in un ristorante di Mykolaiv davanti a un caffè lo scorso settembre. Nel 2013 Vyacheslav è un maggiore generale dello Sbu quando il 22 novembre iniziano le proteste a Majdan Nezaležnosti, la piazza centrale di Kiev. La repressione della polizia e dei reparti speciali della Berkut è estremamente violenta. È in quel contesto che il 25 dicembre si dimette e si ritira a vita privata. Quando scoppia la guerra in Donbass decide di arruolarsi. Un soldato semplice come tanti altri. "Per un ex generale in pensione non c’era nessuna possibilità di andare a combattere al fronte, così mi sono arruolato ripartendo da zero, come un semplice soldato, e sono entrato nel battaglione ‘Mykolaiv’". Nel frattempo ha scritto tre libri, dedicati alla sua esperienza militare.
A distanza di otto anni Vyacheslav, nome di battaglia ‘Spagnolo’, quando i russi invadono l’Ucraina è di nuovo volontario in una compagnia di carristi a Bucha e Irpin. Poi a Kharkiv e infine a Mykolaiv, dove torna al suo vecchio lavoro e guida un’unità speciale di intelligence. Oggi è di nuovo a casa sua, a Kherson. Lui e i suoi uomini adesso lavorano in città. Una città dove le prigioni erano piene di oppositori e sospetti partigiani e da dove, lentamente, dal buio dell’occupazione stanno tornando a galla storie di torture, abusi, umiliazioni, sparizioni. Come quelle avvenute in via Teploenergetikiv 3, dove si trovava uno dei centri di detenzione dei russi. "Sono stato qua per tutto il periodo dell’occupazione. Era orribile e bizzarro. Orribile perché non sapevi mai cosa aspettarti da loro: non era così orribile come a Bucha ma la gente veniva arrestata senza motivo, spariva nel nulla. Bizzarro perché sembrava di vivere in un mondo distopico. Il referendum, l’annessione, i riferimenti al passato sovietico: un sogno grottesco e inquietante. Io lavoravo a un banco di cambio qui vicino e continuavano ad arrivare storie di questo tipo. Ci sono ancora bigliettini attaccati in giro su pali e muri di familiari che cercano notizie dei loro cari scomparsi".
A Kherson adesso la gente può respirare, anche se manca tutto. I russi hanno manomesso la centrale elettrica, non c’è internet, mancano il riscaldamento e l’acqua potabile. "Ma non ci sono i russi, e questa è la cosa più importante", dice ridendo Andrej. Nell’aria rimbombano colpi di artiglieria, due di essi cadono poco distante dalla strada, sulla via del ritorno verso Mykolaiv. Uno a circa trecento metri, l’altro a meno di duecento. La riva del fiume Dnepr, ancora occupata dai soldati di Mosca, è vicina.