Il processo d’integrazione internazionale non è forse così malconcio come si dice. Ma si stanno formando nuovi ‘gruppi’ (e l’Ue potrebbe rafforzarsi)
"Ai miei tempi, figliolo, da queste parti era tutta globalizzazione". Viene da ricordarselo così – come se appartenesse al passato – l’ubriacante fenomeno di integrazione economica, produttiva, tecnologica che ci ha trascinato dal ventesimo secolo a quello successivo: il "mondo piatto" di Thomas Friedman, le Nike Air made in Vietnam, perfino le proteste di quei ‘no global’ che si rifiutavano di stare al gioco. Oggi invece la pandemia virale e il contagio sovranista, gli scontri tra Usa e Cina e la guerra nel granaio d’Europa lasciano pensare a un mondo che torna a rinchiudersi nei suoi confini, con tutti i rischi del caso. Ma è davvero così? Oppure la globalizzazione resta l’indispensabile filigrana del contemporaneo? Ne parliamo con Alessia Amighini, Professore associato di economia politica all’Università del Piemonte Orientale e co-responsabile della ricerca sull’Asia all’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano (Ispi), che il prossimo 24 novembre sarà all’Usi in occasione dei ‘confronti’ organizzati dall’Istituto di ricerche economiche (Ire).
Dove stiamo andando?
Direi che stiamo assistendo a una ri-globalizzazione su base regionale e settoriale. Qualcosa che contrasta con la sterile e un po’ surreale narrazione statunitense sul ‘decoupling’, il disaccoppiamento: ovvero la riduzione al minimo indispensabile delle interdipendenze tra l’occidente e la Cina nei settori high-tech, che includono non solo gli ambiti più all’avanguardia – intelligenza artificiale, robotica, machine learning, biotecnologie –, ma anche innovazioni decisive in settori apparentemente ‘vecchi’, dall’agricoltura all’automotive. Ebbene, per quanto vi si possa aspirare, recidere le dipendenze e svincolarsi dalla Cina in tutte queste realtà è difficilissimo, perché la cooperazione e la sinergia hanno raggiunto livelli estremi.
Cos’è, invece, la ri-globalizzazione ‘a gruppi’?
Si tratta di un fenomeno al quale stiamo in parte già assistendo. Laddove non ci sono legami indispensabili tra Paesi – come succede invece nel caso dei microprocessori – tendono a formarsi dei cluster, dei ‘grappoli’ di collaborazione internazionale che non passano per la Cina, per evitare problemi politici ed economici. Lo vediamo, ad esempio, in India, dove si stanno ricollocando molte aziende del settore auto e macchinari, seguiti di recente anche da Apple, e nell’automotive di lusso, quello di chi come Maserati può organizzare filiere sicure e autonome senza dover combattere sul prezzo come Volkswagen o Fiat, e dunque può conquistare la totale indipendenza dai fornitori localizzati in Cina. Si tratta di un’evoluzione che interessa molto anche la politica europea, sempre più preoccupata dagli scenari di conflitto e dipendenza rispetto a Pechino.
Nasceranno dunque club di nazioni?
E’ lo scenario più plausibile. La Cina sta legando a sé, per ragioni diverse, sempre più Paesi, soprattutto in America latina e in Medio oriente: nel primo caso per l’accesso alle materie prime e alle risorse alimentari, nel secondo collaborando alla loro diversificazione rispetto al petrolio – che prima o poi farà la fine dell’olio di balena – in favore delle energie rinnovabili. Rispetto a questa costruzione, la reazione occidentale potrebbe portare a sua volta alla formazione di ‘club’ diversi e alternativi.
Quando però un sistema fortemente integrato si scinde in gruppi più piccoli, le scosse d’assestamento tendono ad attraversare l’intero globo. Inoltre, guardando alla Cina e alle sue monumentali iniziative d’investimento internazionale – come la Belt and Road Initiative – viene da pensare che la globalizzazione, più che essersi esaurita, abbia cambiato verso: in ‘Finanza e potere lungo le Nuove Vie della Seta’ (Bocconi 2021) lei accenna proprio a una globalizzazione "al contrario". Questo riallineamento del sistema internazionale è destinato a generare scontri?
La globalizzazione ‘al contrario’ indica un processo per cui l’economia cinese si è aperta al resto del mondo in modo altamente selettivo, quasi chirurgico, e sempre più sbilanciato tra enorme presenza cinese all’estero e scarsa presenza straniera in Cina. Di conseguenza, non è la Cina che si ‘globalizza’, ma il resto del mondo che si è dovuto adattare alle condizioni imposte da Pechino.
In un certo senso gli scontri li stiamo già vedendo, anzitutto in Ucraina, dove assistiamo alla disperata reazione imperiale russa anche al netto delle sfrenate ambizioni di Vladimir Putin, che forse sono materia più psichiatrica che economica. Ma in fondo la follia di Putin non è del tutto irrazionale. La Russia cerca uno sbocco meridionale al mare e un recupero di materie prime e di risorse economiche – dall’agricoltura al nucleare –, mentre va perdendo i suoi vecchi satelliti asiatici e la sua relativa centralità a favore di Pechino. Il Cremlino reagisce a questa messa all’angolo in modo ottocentesco, invadendo un Paese, ma seguendo comunque anche obiettivi e incentivi economici più o meno espliciti.
E dire che la globalizzazione si è sempre giustificata (anche) ricordando le parole dell’economista primottocentesco Frédéric Bastiat: dove passano le merci, non passano gli eserciti. Anche la Germania aveva spiegato la sua collaborazione con la Russia sul piano energetico parlando di "Wandel durch Handel", riforma (democratica) attraverso il commercio. Stiamo assistendo alla fine di un’illusione?
Certi mutamenti internazionali generano anche conflitti da non sottovalutare e la situazione è molto preoccupante, si pensi alle fragilità strategiche che stiamo riscontrando nel settore energetico e in quello alimentare. È però altrettanto vero che proprio le interdipendenze economiche tra Paesi favoriscono piuttosto la collaborazione costruttiva. Lo vediamo ad esempio con le batterie e i microprocessori: nessuno vorrà arrivare a un’escalation sullo status internazionale di Taiwan, che metterebbe in ginocchio il mondo intero dalla sera alla mattina. Rispetto a questa realtà la Russia ha l’atteggiamento bellicoso di chi vive ancora nel suo passato zarista, mentre la Cina è proiettata nel futuro e sa di aver bisogno di far passare le merci, agevolando scenari fluidi sul piano globale. Non è un caso che Pechino, al netto delle comunicazioni ufficiali, abbia ormai il dente avvelenato rispetto a Mosca, vittima non solo di una visione politica vecchia d’un secolo e mezzo, ma anche della ‘maledizione delle risorse’: l’ampia disponibilità di materie prime ne disincentiva qualsiasi tipo di innovazione e la spinge a pensare le relazioni internazionali solo come una conquista di ulteriori risorse, appunto. Tanto le difficoltà russe quanto le prospettive cinesi paiono insomma confermare la tesi di Bastiat più che smentirla.
In Occidente, però, la globalizzazione ha creato vincitori e vinti: allo scontento di questi ultimi molti associano l’affermazione dei sovranismi e di leader come Donald Trump. C’è del vero?
Questo è un Leitmotiv che si ripete da tempo e che in effetti ha dominato anche il messaggio di Donald Trump, il quale d’altronde non aveva tutti i torti quando alludeva alla concorrenza sleale cinese e alla deindustrializzazione che essa stava causando negli Stati Uniti. Non si tratta di una divergenza tra Paesi – anzi, c’è stata una convergenza tra la ricchezza dei Paesi Ocse e di quelli emergenti – quanto tra gruppi sociali: all’interno delle singole nazioni c’è chi ha beneficiato dell’apertura, dell’export facilitato e dell’allungamento delle catene del valore, ma c’è anche chi ‘ci ha perso’, in particolare lavoratori e imprenditori dei settori che si sono trovati a competere con l’import. Questo vale in Usa e in Germania o Italia come in Cina, dove pure vediamo crescere il divario tra ricchi e poveri, tra i ‘ricconi’ e quelli che non hanno nemmeno la ciotola di riso che avevano sempre avuto. Lo stesso vediamo in Italia, dove c’è chi non riesce a permettersi la spesa di prima al supermercato e chi invece si compra la villa a Camogli. Di fronte a queste cesure, chi si trova in condizione di svantaggio – perlopiù lavoratori dipendenti senza rendite né capitale – si affida a politici che lo illudono di poter risolvere la situazione: il sovranismo è la diretta conseguenza politica di queste divergenze.
È una tendenza che si sente anche in Svizzera, dove una parte significativa della destra – insieme ad alcune frange della sinistra radicale – invoca un nuovo isolazionismo e la rimessa in discussione dell’integrazione in Europa. Può avere senso?
Mi rendo conto del fatto che si tratta di situazioni controverse e difficili: in un Paese pienamente inserito in mezzo al continente europeo – non solo geograficamente, ma anche economicamente e per interazioni di ogni altro genere – questo dibattito può dimostrarsi pagante dal punto di vista elettorale, ma si rivela ostico e divisivo dal punto di vista analitico. In linea di principio, è chiaro che la condivisione di linee di collaborazione economica e di sicurezza con l’Europa ha più senso dell’isolamento, specie rispetto a un’Unione europea che le crisi recenti hanno reso più pragmatica che mai. Un’evoluzione accelerata anche dalla Brexit, che ha ‘liberato’ l’Europa da un partner che ha sempre giocato da solo (e peraltro ora paga un prezzo disastroso per la sua scelta). In questo contesto, forse anche per la Svizzera sarebbe il momento giusto per pensare in modo più pragmatico a come inserirsi un po’ di più nella struttura di quest’Unione, ben più coesa che in passato.