Monsignor Alain de Raemy è l’amministratore apostolico della Diocesi di Lugano. Nostra intervista sul presente e il futuro del clero ticinese
Dal 10 ottobre, con le dimissioni del vescovo Valerio, Alain de Raemy è l’amministratore apostolico della Diocesi di Lugano. Nato a Barcellona nel 1959, da padre friburghese e madre vallesana, vescovo ausiliare di Losanna, Ginevra e Friburgo, è chiamato a riempire la ‘sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis’.
Nel suo primo saluto, vescovo de Raemy, ha parlato della volontà di ‘voler essere fino in fondo alla valle più lontana’. Ha intenzione di fermarsi molto in Ticino?
Non conoscendo i termini del mio mandato, dovendo garantire la mia presenza fino alla scelta del nuovo vescovo diocesano, o resto in Curia aspettando che il tempo passi, o mi muovo. Sono convinto perciò che il miglior modo per essere presente e accompagnare questo mandato sia quello di essere fra la gente. Certo, dovrò dedicarmi agli impegni ufficiali, teoretici e amministrativi, ma vorrò ritagliarmi anche tempo per i fedeli, perché è ciò che mi serve nell’essere un vescovo che non lascerà un ‘vuoto’. Dovrò e cercherò, dunque, di andare ovunque. Non so quanto profonde siano le valli ticinesi, non ho avuto ancora la possibilità di percorrerne interamente una, ma la mia volontà è quella di essere presente nella comunità, con i parroci e i laici impegnati.
La decisione di papa Francesco di incaricarla di questo compito anziché di nominare subito un successore porta a pensare alla necessità di risolvere una serie di problemi interni alla Curia: è così? E se sì, quali?
Questa è la prassi. Non si comincia mai la ricerca del successore prima che sia finito concretamente il mandato del precedente. Solo da quel momento si avvia la ricerca da parte del nunzio attraverso una consultazione. È, quindi, normale che via sia un tempo ‘sospeso’ tra la fine del servizio di un vescovo e la nomina di uno nuovo. Talvolta questo periodo può durare anche anni. A Friburgo, quando nel settembre 2010 è morto il vescovo Bernard Genoud, pur prevedibile perché malato, il nuovo vescovo, Charles Morerod, è arrivato solo nel dicembre 2011. Lo si fa per rispetto della persona.
Pensando a un tempo dilatato, non può non essere considerata la famosa clausola che vuole, secondo un accordo fra la Santa Sede e la Confederazione, radici della Svizzera italiana per la guida della Curia di Lugano, quel "ressortissants tessinois" che al giorno d’oggi, con la crisi delle vocazioni, può essere anacronistico o quantomeno limitare, troppo, l’individuazione del ‘papabile’. Non crede?
Ogni volta che si arriva alla nomina di un vescovo in Ticino mi pare che si scateni questa discussione. Sarebbe utile abolire questa clausola o no? È chiaro che è complicato trattandosi di una convenzione tra Santa Sede e Confederazione in vigore da molti anni e firmata ufficialmente nel 1968, per preparare la nomina del primo Vescovo titolare di Lugano nel 1971. Pertanto, entrare in materia sulla modifica di questa clausola implica una discussione a livello diplomatico.
Il profilo, del resto lo ha evidenziato lo stesso monsignor Lazzeri con le sue fatiche, richiederebbe una più ampia riflessione, giusto solo per il delicato e pesante incarico richiesto su diversi piani, da quello di rappresentanza al ruolo istituzionale, dalla gestione finanziaria e amministrativa alla necessità di esercitare un’autorità all’interno del clero. Mantenere questa clausola non potrebbe portare ad ‘accontentarsi’ minando lo stesso valore del mandato? Non è tempo di cominciare, a suo parere, una riflessione in questo senso? Potrebbe già partire da Lei questa discussione?
Il mio compito mi porta a escludere qualsiasi decisione che comporta un cambio strutturale per la Diocesi: non ho il diritto né il potere di iniziare dei processi che portino a un ribaltamento. Ma la Santa Sede e la Confederazione sì, nei modi previsti dalla legge.
Ma se avesse questa possibilità, come si comporterebbe?
È vero che la diminuzione del numero di presbiteri rende la scelta di un vescovo generalmente più difficile, non solo in Ticino. E questa clausola è dunque un limite, non si può negarlo. Anche Basilea, ad esempio, ha una clausola simile che impone che il vescovo diocesano sia un sacerdote della Diocesi: non può neppure essere un religioso! Questo è il frutto di una convenzione fra la Santa Sede e i dieci Cantoni della stessa Diocesi di Basilea. Probabilmente si tratta di decisioni frutto di impostazioni culturali e politiche che guardano a una Chiesa cattolica che rispecchi in Svizzera anche una certa configurazione geografica. Tornando alla sua domanda, sono, ad ogni modo, favorevole alla possibilità di scegliere la persona più adeguata. Se si avvertisse che questa clausola limiti sempre di più la scelta, naturalmente è qualcosa che dev’essere cambiata. Ma c’è anche il fatto che noi in Svizzera siamo abituati a vedere la gente ‘del posto’ ricoprire ruoli di responsabilità. È anche vero, però, che la gente ‘del posto’ oggi è rappresentata da naturalizzati perfettamente integrati in Svizzera.
Quali funzioni ha un amministratore apostolico, si sente in questo meno vescovo di Lugano e più ‘commissario’?
Devo essere presente nella transizione da un vescovo all’altro, devo dunque accompagnare la Diocesi in quella che è una sede vacante, non occupata. E questo non come commissario, sostantivo che mi riporta a un’accezione poliziesca e di controllo, ma come vescovo – pastore e padre – anche se i miei poteri sono limitati. Non posso, per esempio, spostare neppure un parroco, a meno che il mio mandato duri più di un anno. In questo caso, per non bloccare tutto, lo si può fare.
Sempre nel suo saluto, ha parlato della necessità di ‘aiutare a far risuonare un’armonia musicale dovuta proprio alla diversità degli strumenti’: crede che questo progetto (che chiaramente si rifà al motto del vescovo Lazzeri) mancava finora di una concreta realizzazione, fuori ma soprattutto dentro la Curia?
Questo originale motto di don Valerio mi aveva già colpito in occasione della sua ordinazione. La maggior parte dei vescovi sceglie solitamente passaggi più famosi della Scrittura. Così sono andato a leggere le sue spiegazioni di questo motto sul sito della Diocesi. Mi ci sono così ritrovato, senza però la necessità di volermi paragonare a nessuno. Ho semplicemente subìto il fascino di questa espressione. È questa anche la sfida.
Il problema delle finanze è fra i grattacapi più pressanti della Curia luganese e di riflesso delle Parrocchie: si è già configurato se non una soluzione almeno interventi atti ad alleviare questa persistente pressione economica?
Anche l’ambito finanziario sarà un compito del nuovo vescovo. A me tocca accompagnare, eventualmente aiutare e consigliare in un modo o nell’altro, ma non posso apportare cambiamenti drastici, come riorganizzare tutta la questione degli stipendi dei presbiteri, oggi di competenza delle Parrocchie, per esempio. Sono tutti aspetti con cui dovrò certo confrontarmi, ma, ripeto, senza poter cambiare il sistema. Ciò rimane nell’autorità del vescovo, sempre che ci sia qualcosa da cambiare.
Cosa ha pensato quando è stato chiuso nel maggio 2018 Il Giornale del Popolo, voce non solo della Curia ticinese ma dell’intera comunità cattolica: crede che oggi manchi un canale di comunicazione come questo?
Non mi posso ancora rendere conto quanto manchi, ma mancherà sicuramente essendo stato un giornale cattolico. Tuttavia, non siamo rimasti proprio senza nulla: pensiamo al portale catt.ch, iniziativa nelle lingue nazionali promossa dalla Conferenza dei vescovi svizzeri, o a Catholica, inserto del Corriere del Ticino. Da una parte, sono convinto che serva veramente un organo come un quotidiano cattolico, che proponga uno sguardo, un’antropologia cristiana su tutto quello che accade nel mondo, ma è indispensabile anche essere presenti negli altri media, come in un giornale che non è per niente cattolico, ma più laico. Pensiamo poi al fenomeno di internet: uno oggi crede di avere accesso a tutto, ma quest’apertura universale non è poi così vera, perché uno va a scegliere, anche con la spinta degli algoritmi, quello che gli piace. Il pericolo è però che questo porti a una chiusura, e lo penso soprattutto per le nuove generazioni. Per contrastare questo è importantissima l’offerta proposta dal servizio pubblico!
Nel 2019 un’inchiesta interna, sostenuta da un esperto esterno, relativa a presunte molestie, poi risoltasi con un nulla di fatto, ha toccato la Diocesi romanda che la vedeva vescovo ausiliare. Come ha vissuto quel delicato momento?
La vicenda di cui fa riferimento risale a più di venti anni fa, quando io non ero ancora vescovo. Non nascondo, le confesso, che quando accade una vicenda come questa, comprendi ancor di più la necessità di essere attento nel vigilare maggiormente. Tornando a Friburgo, possiamo dire di essere stati molto turbati dalla vicenda e fin da subito abbiamo affrontato la cosa con totale trasparenza, nonostante le difficoltà nel trattare fatti caduti in prescrizione. Non dimentichiamo che poi, talvolta, si hanno due versioni contrapposte dello stesso fatto. A Friburgo sono stato anche presidente della Commissione per i casi prescritti e abbiamo sempre accolto tutti coloro che chiedevano udienza, abbiamo sempre ascoltato la presunta vittima e abbiamo sempre cercato di aiutare laddove c’è stata una sofferenza. Però, lo ripeto, è spesso difficile valutare, tanto che a livello nazionale si è deciso di non concedere un risarcimento sui fatti ma sulla sofferenza che ha comportato per l’esistenza di una persona. Perché un fatto minore può avere avuto sulla vittima conseguenze ben più pesanti di quello che può sembrare un fatto più grave. Si tratta di sensibilità diverse da persona a persona che vanno considerate.
Anche in Ticino abbiamo avuto casi che hanno coinvolto sacerdoti della Diocesi. Come evitarli? Quale la strada per un maggior contatto e controllo fra e nel clero?
Il vescovo di per sé quando non abita nello stesso luogo del parroco o di un altro prete non può fare tanto. Sono piuttosto gli altri confratelli o coloro che gli sono vicino, come per esempio i fedeli della comunità, che possono e devono avere questo sguardo e questa coscienza, intervenendo senza indugio quando si riscontra un momento di difficoltà, un atteggiamento dubbio o della solitudine, che non è mai una cosa buona. Per il vescovo, questo è più difficile, perché da una parte è padre, ma allo stesso tempo gli viene chiesto di essere anche giudice. Un padre di famiglia ha lo stesso problema: se uno dei suoi figli si mette nei guai lo accoglie con amore, ma nel contempo lo accompagna sulla via della giustizia. Questa è la grande sfida. A questo vorrei aggiungere che le vittime, di qualsiasi tipo, meritano la nostra totale attenzione e comprensione, affinché sia data loro giustizia.