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La California e quel sogno parecchio malconcio

L’ultimo saggio di Francesco Costa racconta la crisi di uno Stato ancora ricco e innovativo, ma pieno di gravi problemi

Senzatetto a Los Angeles (Keystone)
18 ottobre 2022
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È la quinta economia del mondo. La sua innovazione è finita nelle tasche e sugli schermi di (quasi) tutti. La sua cultura, oltre a dominare l’intrattenimento globale, è da sempre originale, sincretica e progressista. Eppure per molti la California è un inferno, tanto che sempre più persone stanno scappando. Com’è possibile? Una risposta a questa domanda ce la offre Francesco Costa, vicedirettore del ‘Post’ oltre che mente e voce di ‘Morning’, podcast d’informazione seguito ogni giorno da decine di migliaia di persone. Sul tema ha appena pubblicato ‘California. La fine del sogno’ (Mondadori), un saggio agile e lucido che è arrivato subito in cima alle classifiche italiane.

C’è anche il ‘Furore’ di John Steinbeck, per carità, ma per molti di noi la California di oggi è Hollywood, la trinità Apple-Google-Facebook, la Silicon e la Napa Valley. Eppure ogni anno mezzo milione di persone se ne va da lì a gambe levate: non solo verso il Texas, l’Arizona e il Nevada, ma perfino verso l’Idaho, uno Stato talmente sfigato che sulle targhe può vantarsi solo delle sue "famose patate". Cosa sta succedendo?

Oggi le persone che lasciano la California sono effettivamente più numerose di quelle che ci vanno ad abitare: i censimenti mostrano che dal 2020 in poi la popolazione si sta contraendo. Non era mai accaduto. Proprio in ragione delle sue ricchezze e bellezze la California – soprattutto a partire dagli anni Novanta, col boom della Silicon Valley – ha attratto abitanti non solo dal resto degli Stati Uniti, ma da tutto il mondo. Il problema è che l’offerta di abitazioni non ha tenuto minimamente il passo della domanda, a causa di politiche e leggi che favoriscono moltissimo chi è già proprietario e scoraggiano uno sviluppo edilizio adeguato e soprattutto intelligente, ovvero ‘verticale’. Il risultato è stata una crescita immobiliare insufficiente e spalmata su enormi distanze, accompagnata – oltre che da un traffico esasperante – da prezzi e affitti inavvicinabili. È andata a finire con una classe media che paga circa il 50% del suo reddito per l’alloggio, oltre a fronteggiare un costo della vita tale che una famiglia con due figli e 120mila dollari di entrate annue è considerata a basso reddito. Non parliamo poi di chi guadagna ancora meno, che una casa non può proprio permettersela.

Infatti la California è ormai anche lo Stato dei senzatetto: per i marciapiedi delle grandi città se ne vedono a migliaia, con tutti i problemi – in primis di dipendenze e criminalità – che si accompagnano a un fenomeno così massiccio e traumatico. Quanti e chi sono i ‘barboni’ californiani?

Si stima che la mancanza di dimora colpisca circa 160mila persone: in pratica la California, pur avendo ‘solo’ l’11% circa della popolazione Usa, ospita un quarto dei senzatetto totali. Spesso si tratta di persone provenienti dalla middle class, che hanno o avevano un lavoro a tempo pieno oppure studiano, tanto che perfino alcune prestigiose università offrono ai loro studenti parcheggi per dormire in macchina, dato che sarebbe insostenibile pagare allo stesso tempo retta e affitto.

Mentre città come San Francisco si ‘gentrificano’ e diventano più bianche di prima – in netta controtendenza rispetto agli sviluppi demografici nazionali – quei senzatetto continuano ad aumentare. Cosa fa la politica?

Ce lo mostra anzitutto un’osservazione: la stragrande maggioranza passa la notte all’aperto. Non ci sono ricoveri notturni come quelli ai quali si rivolge il 95% dei senzatetto a New York, che a differenza della California si è dotata nel tempo di strutture idonee. In città come San Francisco, la convinzione prevalente tra elettori e politici è infatti che a queste persone servano case, non ricoveri. Il che in ultima istanza è anche vero, ma se le case come abbiamo visto non vengono costruite neppure per chi le pagherebbe milioni di dollari, servirebbero almeno soluzioni intermedie come appunto i centri d’accoglienza. Intanto si spende una quantità enorme di denaro – addirittura impossibile da quantificare esattamente – per i progetti di aiuto, senza ottenere nulla. Ma così si va a letto con la coscienza tranquilla, convinti ciascuno di aver fatto il possibile e che la colpa sia di qualcun altro.

Visto che lo Stato è completamente dominato dai Democratici, possiamo allora dire che al "conservatorismo compassionevole" di cui parlava George W. Bush si oppone in California un "progressismo menefreghista", un misto di intransigente idealismo e concreta ipocrisia?

Non penso che il problema sia tanto l’ipocrisia dei progressisti californiani, quanto piuttosto un problema di base che si riscontrerebbe anche se il monopolio politico spettasse a qualcun altro, in qualsiasi altro posto: quando viene a mancare non solo l’alternanza, ma la sua stessa possibilità, la politica perde un forte incentivo a lavorare bene e ad ascoltare la popolazione. In una situazione simile, l’unico dibattito che importa è quello tra i militanti: le primarie contano più delle elezioni generali. Di conseguenza, si tende a innamorarsi di grandi slogan: "Case, non ricoveri" oppure, dopo Black Lives Matter, "Via i fondi alla polizia". Frasi e idee che non rappresentano affatto il comune sentire e neppure forniscono soluzioni pragmatiche.

Ma allora perché i californiani non votano i Repubblicani? Dopotutto, Ronald Reagan veniva proprio da lì.

Il partito repubblicano ha vissuto una radicalizzazione speculare a quella dei Democratici californiani e per certi versi perfino più acuta: l’elettorato locale, comunque prevalentemente progressista, non prenderà mai in considerazione quello che è diventato il partito di Donald Trump e del tizio con le corna da vichingo che occupa Capitol Hill. Al massimo, si organizzano referendum per far dimettere qualche democratico che è già stato eletto. Questo non impedisce a dei conservatori moderati di vincere in futuro: il mese prossimo l’imprenditore conservatore Rick Caruso potrebbe essere eletto sindaco di Los Angeles, così come il repubblicano moderato Arnold Schwarzenegger fu scelto come governatore (nel 2003 e fino al 2011, ndr).

Guardando alla cultura progressista americana, i conservatori denunciano fenomeni quali la ‘cancel culture’, il politicamente corretto e il ‘woke’. Altrettanto spesso si risponde loro che stanno esagerando strumentalmente manifestazioni isolate. Nel caso della California, invece, la preoccupazione è più fondata?

Si tratta effettivamente di un tema spesso strumentalizzato. Se però c’è un posto al mondo in cui quella critica non è semplicemente uno spauracchio reazionario, quello è proprio la California. Anche in questo caso vediamo gli effetti di una politica ‘performativa’ – fatta di slogan e di cause tanto altisonanti quanto astratte – che si appassiona esageratamente a questioni come il revisionismo della storia e la correttezza, del linguaggio e non solo. Un esempio: durante la pandemia – mentre le scuole restavano chiuse molto più che altrove, penalizzando gravemente l’apprendimento degli allievi – soldi e attenzioni furono dedicati a ribattezzare le sedi scolastiche e cancellare dipinti murali legati allo schiavismo, invece che a riaprire le aule in sicurezza. Oppure, ancora una volta: si parla tanto di inclusività, ma non si risolvono crisi umanitarie come quella dei senzatetto. Questa inversione delle priorità mostra lo scollamento tra la politica e le esigenze delle persone.

Ci si mette anche il cambiamento climatico: ogni anno gli incendi distruggono tra l’1 e il 2 per cento della superficie dello Stato. Solo nel 2020 è andata in cenere un’estensione pari all’intero Veneto. Paradise, una cittadina di 25mila abitanti, è andata completamente distrutta.

Il cambiamento climatico non è un problema solo californiano, ma in California, per una serie di peculiarità – geografiche, climatiche, abitative, di incuria – diventa particolarmente grave. Non ci sono solo gli incendi: la siccità della quale già raccontava Steinbeck oggi mette a rischio una delle più grandi realtà agricole del mondo, creando anche forti contrasti per l’impiego delle acque tra aree e interessi diversi. A vacillare è anche il mito sul quale poggia la California, quello del Far West in cui l’uomo vince dominando la natura, deviando corsi d’acqua, conquistando l’ambiente.

La fuga dalla California significa l’arrivo dei californiani negli Stati confinanti, e non solo in quelli: con quali conseguenze?

Anzitutto una grande crescita economica, perché lo stesso reddito che in California permette di fare poco – ma proviene da impieghi qualificati, che oggi si possono ‘trasferire’ altrove anche grazie al telelavoro – in Idaho o anche in Texas si traduce in una capacità di spesa reale molto più ampia. A sua volta, questo genera indotto: arrivano da altri Stati e Paesi l’insegnante, l’infermiere, il personal trainer, l’addetto alle pulizie, il dog sitter… Questo fenomeno, però, genera anche un ‘trasloco’ di problemi dalla California: salgono i prezzi immobiliari, si gentrificano aree da sempre rurali, la popolazione residente se ne trova espulsa perché non può più permettersi di viverci. Anche la cultura e la politica cambiano in senso progressista, spesso per la prima volta. Non a caso il governatore del Texas ripete lo slogan "Don’t California my Texas".

In fondo la California vive da sempre sull’orlo della catastrofe, anche solo per le sue caratteristiche sismiche. Eppure alla fine riesce sempre a fiorire e rifiorire. Cosa prevede per il futuro?

Credo che il dominio culturale e tecnologico californiano proseguirà, perché almeno a breve termine non vedo chi possa competervi. Ma al di là delle previsioni, ho un auspicio: che questo esodo faccia raffreddare certe crisi e spinga lo Stato ad agire concretamente. Già nelle ultime settimane si è permessa la costruzione di palazzine a più piani, che da noi sono la norma, mentre lì paiono un’eresia. Più in generale, quel che mi auguro di vedere è una politica californiana che ricominci a funzionare, un po’ come si inizia a vedere in posti divenuti meno monolitici proprio grazie all’arrivo dei californiani, ad esempio il Texas. L’atrofizzazione e i fallimenti democratici potrebbero anche agevolare l’emergere di una proposta repubblicana ‘ragionevole’, cosa che di riflesso riporterebbe alla realtà anche il partito democratico.

Insomma, i californiani avrebbero bisogno di un altro Ronald Reagan?

Mah, magari un ‘giro’ di qualcuno come Reagan potrebbe anche servirgli…