L’ideologia del Cremlino ha una robusta matrice intellettuale nella storia del Paese e condensa alcune caratteristiche classiche dell’estrema destra
Qual è la natura del regime putiniano? Interrogativo all’origine di numerose recenti pubblicazioni tra cui quella, ottima (‘Nella testa di Putin’, Edizioni E/O 2022), dello studioso francese Michel Eltchaninoff, caporedattore di ‘Philosophie Magazine’ e profondo conoscitore della storia del pensiero russo. Eltchaninoff ci porta indietro nella storia per identificare nella guerra di Crimea del 1856, in cui l’impero zarista fu sconfitto da francesi, inglesi e ottomani, la nascita di un revanscismo slavofilo radicale di cui l’attuale regime moscovita è l’incarnazione e di cui numerosi intellettuali sono stati interpreti. Gli stessi pensatori a cui fa riferimento il pensiero putiniano e che si iscrivono in una corrente ideologica chiaramente situata nel solco della tradizione dell’estrema destra.
Di Alexandr Dugin si è già detto e scritto molto: ideologo bellicista, fondatore all’inizio degli anni 90 del secolo scorso del partito nazional-bolscevico dal vessillo rosso-bianco-nero che ricorda quello nazista. Dugin è uno dei più ferventi teorici della "terza Roma" (cronologicamente dopo Roma e Costantinopoli): Mosca come capitale di un impero senza pari di stirpe slava e religione cristiano-ortodossa. Ancor più influente sul presidente russo il pensiero di Ivan Il’in (1883-1954), ammaliato dal fascismo mussoliniano, impregnato di quell’antibolscevismo che ritroviamo in particolare nel celebre discorso in cui Putin, assolvendo Stalin, aveva addossato a Lenin la responsabilità storica della crisi ucraina.
Putin non ha mai nascosto di esser attratto da questo filosofo dalle malcelate simpatie per il nazismo. In un discorso tenuto nel 2006 lo aveva citato per celebrare il ruolo dei militari come rappresentanti dello spirito e della volontà del popolo russo. Il panslavismo a trazione russa è pure al centro delle teorie di Nicola Danilevski, filosofo dell’800 sepolto in Crimea, forse il più presente nella testa di Putin, particolarmente importante perché già fortemente schierato contro quell’occidentalizzazione della Russia avviata in particolare dallo zar Pietro il Grande a cavallo del ’700. In lui si trova forse la matrice ideologica più forte del revanscismo russo.
La storia recente, che a volte la quantità di notizie di cui siamo quotidiano bersaglio ci induce a rimuovere, è contrassegnata da una lunga serie di menzogne da parte del Cremlino. Non è certamente l’unico fabbricante di fake news (basti ricordare quelle della Casa Bianca che portarono all’attacco americano all’Iraq nel 2003), ma diciamo che ne è oggi uno dei principali promotori, in casa e all’estero. Sergej Lavrov, ministro degli Esteri, proprio alla vigilia dell’aggressione all’Ucraina aveva tacciato di "isteria occidentale" le notizie diffuse dagli americani sull’imminente invasione. Artefice di ben quattro interventi militari (in Cecenia dal 1999 per ben dieci anni, in Georgia nel 2008, in Siria nel 2015, nel Nagorno-Karabakh nel 2020) senza contare la presenza per interposte milizie Wagner in Libia (dal 2016), Vladimir Putin si è mostrato spietato quanto propenso ad avere un rapporto molto disinvolto con la verità. Tre giorni prima di lanciare l’intervento in Siria il presidente aveva garantito all’intervistatore della rete televisiva Cbs che "la Russia non parteciperà ad alcuna operazione militare in territorio siriano". Quanto alla spietatezza, basterebbe osservare le immagini di devastazione di Homs o Aleppo, dove le forze aeree russe presero di mira volontariamente anche gli ospedali.
Alla menzogna come arma di guerra se ne affianca un’altra, altrettanto antica: la manipolazione sistematica della storia. L’Ucraina viene presentata come una semplice appendice della Russia sorta dalla "Rus di Kiev", Stato embrionale in realtà creato dai Vichinghi nel IX secolo che può essere considerato la culla di diverse nazioni slave, dall’Ucraina alla Russia, dalla Polonia all’Estonia. Cancellando le specificità storiche ucraine – fino al XVII secolo e soprattutto fino all’annessione da parte di Caterina II un secolo più tardi le due entità, Russia e Ucraina, hanno avuto percorsi separati – Putin non fa altro che riprendere l’ideologia "euroasiatica" (Il’in, Dugin o il linguista Nikolaj Trubeckoj, fautore dell’abbandono da parte degli ucraini della loro lingua) che si prefiggeva di creare l’unità di una stirpe con una cultura ben superiore a quella di un Occidente decadente.
Rascismo, ruscismo: inutile cercare sulle pagine italiane di Wikipedia. Non troverete nulla. Ma il neologismo è già presente in Wikipedia in una trentina di lingue (tra cui l’inglese "rashism") ed è una contrazione tra Russia e fascismo. E rimanda pure al termine "razzismo". Insomma un condensato che riassumerebbe l’ideologia putiniana. Pare sia stato coniato durante la prima devastante guerra in Cecenia nel 1995 e stando a diverse fonti – tra cui l’autorevole storico di Yale Timothy Snyder, esperto dell’Europa orientale e autore del notevole ‘Terre di sangue’ pubblicato a Rizzoli – è usato ormai anche in ambienti accademici.
Il nuovo fascismo russo (che ha dunque una robusta matrice intellettuale nella storia del Paese) condensa alcune caratteristiche classiche dell’ideologia dell’estrema destra: culto dell’uomo forte e visione virile della supremazia culturale, concezione razziale (slavismo nel quadro dell’impero euroasiatico), primato assoluto di una nazione etnicamente omogenea, mancanza di democrazia, celebrazione di un passato immaginario, espansionismo militare e glorificazione della violenza e della forza (Putin che non manca di celebrare con fierezza il nuovo missile balistico Sarmat "capace di colpire i poli nord e sud", o quello ipersonico Kinjal).
La studiosa della Sorbona Anna Colin Lebedev, citata nel fascicolo di Le Monde ‘Ukraine, histoire d’une émancipation’, spiega che "rascismo" sarebbe di fatto un qualificativo "reattivo" che gli ucraini contrappongono alle accuse di nazismo mosse dal Cremlino per giustificare l’aggressione e i suoi tentativi di annessione (verosimilmente di gran parte se non di tutta l’Ucraina). Il termine è dunque già molto usato dalla popolazione ucraina (l’altro ancor più diffuso per indicare gli invasori è "orchi") e riflette pure quanto in sostanza denunciano o hanno denunciato diversi oppositori russi. A cominciare da Boris Nemtsov (assassinato nel 2015 davanti al Cremlino) che stigmatizzava l’odio e la violenza della politica putiniana, o dall’architetto della Perestroika gorbacioviana Alexander Yakovlev secondo cui il "pericolo del fascismo in Russia è reale".
Il dibattito approfondito sul fascismo ha anche il merito di smascherare i grossolani sfondoni e gli abbagli di alcune teste d’uovo che imperversano alle nostre latitudini. Ci sono i vari Alessandro Orsini (secondo cui la Russia avrebbe sventrato l’Ucraina in una guerra lampo) o giornalisti che discettano in poltrona per dirci che Bucha fu manipolazione e non massacro (tal Toni Capuozzo) uniti nel loro malcelato putinismo e nella palese insensibilità per la popolazione del Paese aggredito. Ma non ci sono solo commentatori da operetta: pontificano pure eminenti baroni del pensiero accademico che uscendo dal loro campo di competenze si avventurano, inciampando, in una realtà complessa che non conoscono. Luciano Canfora (eminente filologo professore all’Università di Bari, dove insegnano pure moglie, figlia, figlio e nuora) sottolineava il 17 febbraio "la volontà di pace del governo russo". Stalinista nostalgico, Canfora aveva già preso in passato diversi granchi (sempre a difesa di Mosca), evidenziando singolari lacune sulla storia contemporanea, affermando ad esempio che l’intervento sovietico in Afghanistan mirava a difendere il governo comunista eletto democraticamente (in realtà vi furono in due anni tre successivi colpi di Stato che fecero migliaia di morti).
Pure il grande medievista Franco Cardini, regolarmente interpellato dai media, vede il nazismo dove non c’è (Ucraina) e nella sua ricostruzione storica dei rapporti tra Mosca e Kiev dimentica di citare i massacri staliniani e l’Holodomor, la micidiale carestia nella quale perirono almeno 3 milioni di persone. Anche lui sottovaluta i massacri di massa compiuti da Stalin. Leon Trotsky già nel 1939 (‘La questione ucraina’, citato in ‘Ukraine, histoire d’une émancipation’) sosteneva che "senza Stalin non ci sarebbe stato Hitler. E senza lo stupro dell’Ucraina sovietica da parte della burocrazia staliniana non ci sarebbe stata politica hitleriana in Ucraina". "Putin è in gran parte affidabile", ha scritto Cardini, che uscendo dal suo Medioevo per avventurarsi nella storia più recente aveva già registrato negli anni qualche tonfo complottista. Il suo passato politico nelle file della destra estrema (Msi, il Movimento sociale italiano, ma anche la filonazista Jeune Europe) ci aiuta forse a spiegare una certa ostilità per le democrazie così come l’attrazione per i modelli autoritari, anche i peggiori.
A destra come a sinistra, complice anche lo sfilacciamento sociale e ideologico della nostra modernità liquida, la concezione di un potere sovranista e militaresco ha indubbiamente i suoi estimatori. È tuttavia probabile che i pesanti rovesci subiti negli ultimi giorni dall’esercito russo possano contribuire a far cadere molte certezze e a far nascere soprattutto in patria una bozza di dibattito sul "rascismo", questo neofascismo molto insidioso, di cui il Cremlino è l’incarnazione, ma di cui anche i russi, e non solo gli ucraini, sono e saranno sempre di più vittime.