Gli argentini Cuciuffo e Brown, all’inizio panchinari, risultarono poi protagonisti in un torneo che il Messico non avrebbe nemmeno dovuto ospitare
La postulazione per poter ospitare un Mundial, avanzata nel 1966, era stata soltanto una mossa elettorale del liberale Carlos Lleras Restrepo, che allettando il popolo con simili promesse sperava di diventare presidente colombiano. Le elezioni finì per vincerle, ma del pallone si dimenticò prestissimo. Non si sa se gli svariati suoi successori fossero al corrente che a Zurigo ci fosse una candidatura pendente, ma sta di fatto che nel 1974 la Fifa assegnò l’organizzazione della Coppa del mondo del 1986 proprio alla Colombia, Paese povero, politicamente instabile e dalla tradizione calcistica men che misera: una sola partecipazione ai Mondiali e zero vittorie in Copa América, torneo che non aveva mai nemmeno organizzato. Eh, cosa, chi… ? balbettarono dunque politici e dirigenti sportivi colombiani quando lessero sui giornali di essere i prescelti. Un bel fastidio, si dissero. Alla gente – di nuovo per tornaconto elettorale – venne ad ogni modo assicurato che il torneo si sarebbe organizzato e che sarebbe stato il più bello della storia. Ma poi, dato che all’appuntamento mancavano ancora una dozzina d’anni, tornarono a infilare il dossier-mundial fra le scartoffie, sperando che la patata bollente, non si sa quando, finisse in mano ad altri. Gli svizzeri però sono famosi per misurare il tempo con precisione e così, ogni tanto, chiamavano Bogotà per sincerarsi che tutto procedesse bene, ricevendo ogni volta rassicurazioni. Qualche mese dopo il Mondiale spagnolo dell’82 – che si chiuse con striscioni al Bernabeu che rinnovavano l’appuntamento a Colombia 86 – da Zurigo il presidente Havelange volò nel Paese del caffè per vedere di persona a che punto fossero i preparativi. E sgomento scoprì che in otto anni nulla di quanto richiesto era stato realizzato: capacità alberghiera immutata, rete stradale idem, stadi vetusti, aeroporti con piste in erba e impianti per telecomunicazioni del tutto assenti. «Forse potremmo farcela se si tornasse a un torneo a 16 squadre», disse senza crederci troppo Antonio Senior Quevedo, capo della federcalcio colombiana. Havelange si era battuto per l’allargamento a 24 squadre e maggiore coinvolgimento dei continenti marginali: mai avrebbe potuto avallare l’involuzione, al di là del fatto che i colombiani – allo stato delle cose – non sarebbero riusciti a organizzare nemmeno un torneo di briscola.
Il Paese aveva problemi più gravi di cui occuparsi: nel corso degli anni, le dittature succedutesi avevano scatenato la formazione di gruppi armati d’opposizione capaci di organizzare attentati sanguinari e sequestri eccellenti. E, come se non bastasse, era cresciuto a dismisura il potere dei cartelli della droga, che ormai impiegavano più gente della tradizionale industria cafetera e tenevano in scacco governo, esercito regolare e guerriglieri. La Colombia era una polveriera senza un briciolo di sicurezza: in nessun modo si sarebbe potuto organizzarvi il Mundial. I soli che avrebbero potuto accollarsi le spese erano proprio i narcos – ricchissimi – ma non ne avevano alcun interesse. Non avrebbero infatti gradito che il Paese si riempisse di troupe televisive straniere ultracuriose, né che gli aeroporti si dotassero di colpo di radar capaci di disturbare i loro traffici. I boss della droga si sarebbero accontentati, nel calcio, di continuare a gestire le maggiori squadre del Paese – América de Cali e Nacional de Medellin – che in quegli anni, grazie alle risorse dei padrini cocaleros, raggiungevano risultati mai colti prima a livello continentale.
Il conservatore Belisario Bentancur Cuartas, da poco eletto presidente colombiano, fu dunque costretto alla fine del 1982 ad ammettere l’impreparazione del Paese a organizzare il Mundial: in un discorso alla nazione di sole 99 parole, disse che nessuno aveva tempo per assecondare i capricci della Fifa, e che il popolo si sarebbe consolato col Nobel per la letteratura assegnato quell’anno a Gabo Marquez. A Zurigo scattò l’allarme: urgeva qualcuno in grado di ospitare il torneo in cartellone tre anni dopo. Unica condizione, che fosse un Paese americano, data l’ormai consolidata alternanza fra Europa e Nuovo Mondo. Si fece avanti il Brasile, ma fu lo stesso Havelange – carioca – a bocciarne la candidatura. Poi ci provarono gli Usa, ai quali era però già stata promessa l’edizione 1994. E così, nella primavera ’83, la scelta cadde sul Messico, che la Coppa l’aveva già organizzata nel 1970 e che a livello di alberghi, aeroporti e comunicazioni – in quanto Paese votato al turismo – non presentava alcuna pecca. L’unico inconveniente giunse nel settembre del 1985, a nove mesi dal fischio d’inizio, quando il Messico fu sconvolto da uno dei suoi peggiori terremoti: si temeva che i danni potessero pregiudicare lo svolgimento del torneo, ma la ricostruzione fu celere e impeccabile.
Ora, per parlare di ciò che era dunque un Mondiale di riserva, pare legittimo concentrarsi su due giocatori che, alla vigilia, erano da tutti considerati riserve: panchinari patentati con men che trascurabili chance di giocare. Ci riferiamo al difensore argentino José Luis Brown e al suo compagno di reparto Cuciuffo, pure lui battezzato José Luis. Il primo, quasi trentenne di lontane origini scozzesi e con pochissime presenze in Nazionale, trovò posto in squadra già dalla prima partita grazie all’indisponibilità di Passarella – eroe del Mundial del ’78 – ufficialmente fermato dalla vendetta di Montezuma, omaggio messicano a declinazione intestinale riservato ai turisti. In realtà , il Caudillo fu messo fuori rosa dal Dt Bilardo quando scoprì che stava giocando sporco coi giornalisti alle spalle di Maradona. Il venticinquenne Cuciuffo, sangue siciliano e ancor meno habitué della maglia albiceleste, divenne invece titolare alla seconda gara per un infortunio rimediato all’esordio da Clausen. Pur non avendo mai giocato insieme, i due ex panchinari trovarono subito un’intesa che li trasformò, come in una favola, nella miglior coppia difensiva del torneo, capace di annullare cammin facendo gente del calibro di Francescoli, Lineker, Scifo e Völler. Il giorno della finalissima contro la Germania Ovest fu proprio per merito di Cuciuffo e Brown che l’Argentina si portò in vantaggio. Quando si giocava da una ventina di minuti, Cuciuffo si spinse velocissimo in avanti obbligando Matthaeus a stenderlo sulla trequarti, e sulla conseguente punizione battuta da Burruchaga fu El Tata Brown a infilare di testa il portiere Schumacher, uscito in verità ad mentula canis. Fu il suo unico gol con la Seleccion, ma uno dei più importanti nella storia del calcio argentino. E a passare agli annali, in quella finale che regalò ai sudamericani il secondo titolo iridato, fu un altro curioso episodio: dopo uno scontro con Hoeness, Brown si ritrovò con una spalla lussata, ma quando Bilardo fece per sostituirlo reagì come un aspis. «Non lascio il campo manco morto». Coi denti, El Tata strappò un lembo della sua maglia e ne ricavò un buco in cui infilare il pollice destro, nel tentativo di bloccare in qualche modo il braccio. E in quelle condizioni rimase in campo l’ultima mezz’ora per sventare gli attacchi tedeschi e diventare campione del mondo.
Cuciuffo ci lasciò 43enne dopo una battuta di caccia nel sud della provincia di Buenos Aires, quando a bordo di un fuoristrada un colpo partito accidentalmente dalla sua carabina gli trapassò il fegato e gli si piantò nell’aorta. L’ospedale distava 100 km, e così morì dissanguato. Brown se ne andò invece a 62 anni per una grave forma di Alzheimer precoce. Nell’estate del 1986 avevano entrambi aiutato Maradona a renderli immortali. E il primo di quella squadra a raggiungerli nei pascoli celesti fu proprio Diego, l’uomo che rese iconico un Mundial nato sotto una pessima stella, che all’inizio pareva nemmeno avere un proprietario ma che finì poi per trovare addirittura un dominatore.
Questa è la tredicesima puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del mondo di calcio che ci accompagnerà fino a novembre, nell’immediata vigilia di Qatar 2022.