Intervista a Franca Galfetti Soldini che dopo vent’anni (trentaquattro in totale) lascerà la guida della Sezione 3 della Pretura di Lugano
Lavorerà fino all’ultimo giorno, il prossimo 30 dicembre, poi per Franca Galfetti Soldini, 63 anni, con il 2 gennaio si aprirà una nuova fase della propria vita: «Prima di tutto mi farò una bella
dormita, poi comincerò a organizzare il mio tempo libero». Dopo trentaquattro anni in Pretura e venti da pretore, a fine anno lascerà la Sezione 3 di via Bossi a Lugano. Non prima di evadere quanto rimasto sulla scrivania «in modo che chi arriva (il concorso per il sostituto o la sostituta è già stato chiuso e sono in corso le audizioni, ad esprimersi sarà successivamente il Gran Consiglio, Ndr) non si ritrovi uno zaino pieno di pietre...». Un territorio di pertinenza che porta a tutti i Comuni attorno al Ceresio e una varietà di pratiche, quale giudice civile di prima istanza, ampia.
Proprio in questi giorni anche suo marito, Simone Soldini, direttore uscente del Museo d’arte di Mendrisio, è andato in pensione: una coincidenza o la volontà reciproca di riappropriarvi dei vostri spazi e hobby?
Le due cose. Nel senso che mio marito ha deciso per conto suo, senza consultarmi, mentre io ho deciso da tempo che nel momento in cui mia figlia minore avrebbe terminato gli studi mi sarei presa del tempo per me.
Anche perché il tempo investito nella professione è stato sicuramente parecchio in termini di ore, preparazione, pensieri. Potremmo parlare (vi è entrata nel 1988) di una vita in Pretura. Ha dunque compreso di aver dato molto, diremmo abbastanza?
Sì, soprattutto di pensieri. Perché, in un certo senso, è un lavoro che te lo porti anche a casa. Adesso occupandomi di un altro tipo di pratiche rispetto a quando mi dedicavo ai divorzi forse è meno sfiancante, soprattutto da un punto di vista emotivo, psicologico. Ora si parla, in particolare, soprattutto di soldi che possono essere importanti, intendiamoci bene, non intendo sminuire i casi, ma meno incisivi sulle persone rispetto a quando entrano in gioco i sentimenti, gli esseri umani.
Come ha preso avvio la sua carriera in Pretura? Di formazione è avvocato: perché non ha scelto la strada dello studio privato preferendogli l’impegno nel ’pubblico’?
A volte le cose nascono casualmente e nel mio caso forse è stato così. Ero un giovane avvocato, stavo preparando gli esami di notaio e semplicemente desideravo mantenermi da sola, essere del tutto indipendente dalla famiglia. Mi è stata offerta una possibilità temporanea per qualche mese quale giurista alla Pretura Sezione 1 per evadere gli arretrati che c’erano e poi da cosa nasce cosa... Ancora prima che terminassi mi hanno chiesto se mi interessava una sostituzione di un anno in un’altra sezione, ho subito accettato. È così che via via mi sono appassionata.
Un impegno trentennale
Qual è stato il maggiore elemento che l’ha portata a dire ’questa è la mia strada’?
Non lo so, forse l’impressione di riuscire a rendere giustizia, o almeno a provarci... Trovo che se hai una certa etica stando dalla parte del giudice hai la possibilità di poter fare la differenza.
È sempre facile oggi, quando tanti processi si fanno prima via social, con il pericolo di minare il senso di giustizia a cui lei accennava?
Premesso che si può rendere giustizia a condizione che qualcuno che ha ragione porti anche le prove a sostegno della sua tesi, capita però che manchi questo tassello e quindi, anche se magari nell’intimo siamo convinti che abbia ragione, dobbiamo decidere a sfavore della parte. Abbiamo dei "paletti" entro i quali dobbiamo muoverci. Ed è proprio lì che diventa molto importante il ruolo dell’avvocato, sul quale però preferisco non aprire un capitolo... Lo faccio, invece, per i social. Le liti di cui trattiamo dovrebbero rimanere nella sfera privata, a prescindere dalle parti coinvolte. Biasimo quegli avvocati o parti che tentano di usare i "social" in senso lato quali mezzi di pressione sul giudice, utilizzandoli per dare la loro versione dei fatti in una fase processuale precedente alla sentenza. Le liti private, che sono quelle che trattiamo noi, dovrebbero rimanere tali e anche i pretori non dovrebbero rilasciare dichiarazioni ai media.
In questa ricerca della giustizia, ha provato mai amarezza nel chiudere una pratica? Comprendere che la giustizia non è arrivata del tutto, che una pratica non è stata chiusa come avrebbe voluto?
Non voglio dire tante volte, però sì, certo e a livello umano mi dispiace. D‘altro canto poi mi dico che se con gli elementi di prova che si avevano a disposizione non si poteva concludere diversamente perché l’avvocato o il suo cliente hanno effettuato determinate scelte processuali sono loro che poi devono assumersene la responsabilità. Io cerco sempre di avvertire le parti sui rischi di causa e alcuni avvocati non apprezzano molto questa mia modalità di concepire l’attività. Vorrei che con il mio ausilio le parti possano trovare una soluzione alla loro controversia perché credo che un accordo sia sempre il miglior modo di chiudere una lite. Sono convinta del fatto che una soluzione condivisa anziché imposta – perlomeno a una delle due parti – quale è la sentenza, venga assunta con più presa di coscienza. Chi ha promosso la causa non necessariamente ottiene quello che avrebbe voluto ma ha comunque ottenuto qualcosa di accettabile entro tempi ragionevoli. Perché, spesso ce lo dimentichiamo, una sentenza comporta comunque tempi sempre più lunghi rispetto a una soluzione concordata. Non manco quindi mai di spiegare, a chi è davanti a me, che anche qualora dovesse ottenere fra alcuni anni quello che voleva, oltre ad essersi probabilmente "mangiato il fegato" che, se vogliamo, ha un costo anche questo, quello che si riuscirà ad ottenere non sarà comunque mai il 100% di quello che si voleva. Anche se io la cifra richiesta la metterò in sentenza, infatti, quella cifra è costata anche in termini di soldi perché si dovrà pagare l’avvocato (dato che la partecipazione riconosciuta dai tribunali alle spese del proprio avvocato di regola non copre il costo effettivo), anticipare delle tasse, e via dicendo tutte cose che molte volte le parti non considerano. Purtroppo, nonostante l’introduzione, una decina di anni fa, del tentativo di conciliazione obbligatorio in via preliminare, è presente ancora questo modo litigioso che, a mio avviso, è un po’ fomentato dagli stessi avvocati. Quelli con i quali tu puoi trovare delle soluzioni non sono così tanti...
Cosa ha amato di più nel suo lavoro e cosa meno?
Un po’ meno la parte amministrativa, burocratica, che non ho mai amato. Invece il lavoro, l’andare in aula, il cercare di trovare soluzioni, ma anche lo studiare l’incarto, mi hanno sempre coinvolto. Il problema è che abbiamo un ritmo di lavoro tale per cui non si ha così tanto tempo per studiare a fondo ogni pratica. Detta così può sembrare ‘brutale’ ma con la modifica del Codice di procedura civile, dieci anni fa, ho sempre più dovuto far capo ai miei giuristi per la redazione delle mie sentenze. Una revisione che ha comportato per noi anche una presenza maggiore in aula in quanto ai segretari assessori non è più permesso sostituirci in aula, se non per le conciliazioni che sono di loro competenza.
Lungo la sua strada ha affrontato probabilmente decine di migliaia di pratiche. Un elemento che l’ha portata a mostrare elasticità di mente e di organizzazione?
Certamente, ci occupiamo delle pratiche più disparate dalla contrattualistica alle cause di risarcimento danni, dal diritto di vicinato al contratto di lavoro, dagli appalti alle azioni di annullamento di delibere assembleari e via di seguito. Devo dire che è un aspetto del nostro lavoro da un lato affascinante, perché molto variato, ma anche stancante in quanto passo e faccio venti cose diverse al giorno e, come comprenderà, non è sempre così semplice.
Anche nel 2022 mi tocca chiederle come è riuscita a conciliare il ruolo privato e professionale, in quanto donna. Resta difficile o quantomeno complesso?
Forse oggigiorno è più semplice ma quando ho iniziato io non era facile conciliare tutto. Occorreva una grande organizzazione, senza non sarebbe stato possibile e in questo sono convinta del fatto che noi donne siamo più forti. Quando decidi di fare questo lavoro ed impegnarti a farlo bene, ma vuoi essere anche moglie e madre, devi inevitabilmente rinunciare a tante cose, in primis al tempo libero. Per me non entrava neppure in considerazione partecipare ad un convegno e stare via una notte perché poi diventava difficile organizzare tutto, necessità dei figli, animali domestici, le faccende di casa, l’amministrazione familiare e il resto. Eppure, lo porto come un aneddoto, mio marito mi diceva sempre ’prenditela con calma’, faceva lo zen lui, come se per noi donne l’attività professionale fosse da considerare alla stregua di un hobby. Per questo, ammetto, ho avuto in alcuni momenti l’impressione che lui non capisse l’importanza del lavoro che stavo svolgendo, forse perché non mi sono mai lamentata troppo del doppio peso, anche se a volte, ripensando soprattutto agli anni in cui i figli erano piccoli mi chiedo come sia riuscita a fare tutto. È anche questo il motivo per cui dopo tanti anni di rinunce desidero del tempo anche per me, per coltivare i miei interessi extra-professionali. E non ho timore di questo anzi l’aspetto, perché sono una persona che fortunatamente ha sempre avuto tanti altri interessi e passioni che non hanno niente a che vedere con il lavoro, dalla Grecia, che considero la mia seconda patria (parla e scrive in greco, Ndr) alla fotografia. Tornando al mio lavoro, e avendo anche una famiglia, è capitato di portare delle pratiche anche a casa, ma sono sempre riuscita a farlo a compartimenti stagni. Un po’ perché ho un senso del segreto d’ufficio molto radicato e quindi non mi è mai capitato di parlare del mio lavoro con mio marito, se non magari una battuta o un accenno. In generale ho condiviso molto poco anche se mi è capitato magari di chiedere alle figlie delle cose che io non sapevo, per esempio nel corso di un approfondimento di una causa a un parrucchiere per la posa di extension..., cose di questo genere, niente di più. Come mi è capitato che parenti o amici mi chiedessero un consiglio o un parere, un suggerimento su alcune questioni, ma penso che sia anche normale, come in altre professioni.
È tempo di Grecia e riposo
Come sono cambiati in questi anni gli utenti nel rispetto dell’autorità, nel porsi durante le udienze?
Negli utenti non ho notato un grande cambiamento, l’ho avvertito nella tipologia di avvocato più che altro. Se il ‘vecchio’ avvocato aveva, salvo qualche eccezione, quasi un sacro rispetto dell’autorità, e nelle forme era molto corretto, adeguato, oggigiorno con le nuove generazioni ciò non è sempre scontato: ogni tanto infatti c’è bisogno di rimetterli un po’ al loro posto. Non ho invece vissuto una differenza fra utenti o avvocati uomini o donne. Forse nelle cause di divorzio era più semplice che una donna capisse un certo tipo di problema, soprattutto se era un’avvocata che aveva famiglia. Certo il ruolo in aula nell’essere donna, a tutti i livelli, è mutato non poco: credo di essere stata la prima a presentarmi in un’udienza col pancione, oggigiorno è invece normalissimo. Ricordo di essere partita per il secondo figlio dall’aula udienze verso l’ospedale e di vecchi avvocati che mi chiedevano se potevano toccare il pancione perché vi era la credenza portasse fortuna. In generale, ad ogni modo, credo che il ruolo femmina-maschio sia sempre stato un problema più degli uomini piuttosto che di noi donne. Una cosa però è certa: i colleghi maschi hanno avuto una vita più semplice delle colleghe sposate e con figli. Ma credo come in ogni altra attività, professione o settore.
C’è una pratica che le è rimasta in testa o nel cuore?
A scadenze regolari me ne viene magari in mente una. Ma c’è una cosa, soprattutto, sulla quale riflettevo recentemente. Nei molti anni che ho trattato di divorzi ho visto tantissime famiglie e ho assistito a separazioni molto brutte e pesanti, con situazioni familiari davvero difficili e bambini che bisognava cercare di proteggere. Allora mi sono sempre chiesta se la situazione che arrivavo anche ad imporre fosse quella più giusta. In fondo non lo si può sapere fino in fondo in quanto ci sono così tante variabili. Quando però mi è capitato casualmente a distanza di anni di ritrovare quelli che allora erano i figli di quelle famiglie problematiche e vedere che nella vita se l’erano cavata bene ho provato un grande sollievo e anche a chiedermi se è la natura umana, a prescindere da quella che è stata l’esperienza personale d’infanzia o di gioventù, che ci ha dotato di risorse per cui se devi emergere, comunque emergi, oppure se è grazie a una rete che si è costruita attorno a queste persone che se la sono cavata... Non lo so, ma posso dire che, forse, nel nostro lavoro su alcune cose riusciamo ancora a fare la differenza.
A chi le succederà lascia un messaggio, una nota, un augurio, un monito?
Quello di trovare in questa professione lo stesso piacere, la stessa passione, lo stesso entusiasmo che ho trovato io. Sicuramente è un lavoro in cui non ci si annoia, assolutamente, che dà soddisfazioni, almeno io le ho provate. A me è piaciuto il contatto diretto con le persone; hai l’impressione che tu, sulla base delle tue conoscenze e della tua formazione, puoi aiutarli a trovare una soluzione alla loro controversia senza dover passare necessariamente attraverso una sentenza. Ma senza entusiasmo diventa pesante. Poi, suggerirei di trovare interessi anche al di fuori dalla sfera professionale: sei una persona completa se la tua vita non è solo il lavoro, solo così acquisisci quelle ricchezze capaci di far crescere anche la tua professione. Non puoi essere un ‘Fachidiot’, uno cioè che è un bravissimo teorico, magari un grande giurista, ma che non sa neppure di cosa parla perché non conosce il problema che è a monte di quello che lui deve risolvere. Ciò viene dalla non conoscenza della vita reale. Soprattutto nella nostra professione, di prima istanza, è necessario avere un’esperienza di vita che ti permetta di capire il problema che ti viene sottoposto, non basta la sola conoscenza del diritto o dell’ultima sentenza del Tribunale federale. E penso anche che se sei una persona a tutto tondo sei anche una persona libera, difficile da influenzare o sulla quale esercitare delle pressioni. C’è una regola? Quando entro in aula ho sempre letto l’incarto.