Il termine americano è spuntato nei discorsi Udc dopo la censura di un concerto reggae. Ma le cose sono più complesse, ci spiega il sociologo Cattacin
In principio era il politically correct. Poi sono arrivati il gender e la cancel culture. Ora è tempo di woke, l’ennesima etichetta d’importazione americana utilizzata (anche) da questa parte dell’Atlantico per denunciare le presunte derive della sinistra progressista e ‘multikulti’.
Il termine "woke" designerebbe il fatto di essere "svegli", "all’erta" di fronte agli episodi di discriminazione verso qualsivoglia minoranza. Popolarizzata dal movimento Black Lives Matter in relazione alle denunce di razzismo e sessismo sistemico, la parola ha però ormai perso completamente la sua connotazione iniziale – positiva o perlomeno neutra – ed è diventata un dispregiativo: sei "woke" se te ne stai sempre col ditino puntato, se basta una parola infelice o il nome d’un dolce (ad esempio le ‘Teste di moro’) a farti denunciare chissà quale oltraggio, magari mettendo alla gogna il prossimo sui social o nelle università.
Paradossalmente, questa connotazione negativa faceva già capolino da un vecchio e virale discorso dell’ex presidente Usa Barack Obama, che nel 2019 ha detto a una platea di giovani attivisti: "Quest’idea di purezza, di non fare mai compromessi e di essere sempre politicamente ‘woke’ e così via… dovreste liberarvene alla svelta". Poi però la palla è rotolata a destra, e sono stati i conservatori a impugnare il termine contro i ‘liberal’, i progressisti che la narrazione repubblicana dipinge come iperurbani, intolleranti e viziati.
Da lì, restando dalla stessa parte dello spettro politico, la designazione ‘woke’ è arrivata in Europa e ora in Svizzera, dove a fare da detonatore è stato in particolare un episodio del 18 luglio scorso: alla Brasserie Lorraine di Berna alcuni spettatori, su un totale di una quarantina, hanno chiesto e ottenuto l’interruzione di un concerto dei Lauwarm, un gruppo reggae svizzero-tedesco, perché a loro dire il fatto di portare i dreadlock (le ‘treccine rasta’) essendo bianchi è una forma indebita di appropriazione culturale (va ricordato che nella tradizione giamaicana e afroamericana questo tipo di acconciatura rappresenta anche una reazione all’oppressione degli schiavisti, che costringevano i loro schiavi a rasarsi i capelli). Il caso è subito finito sui social.
Apriti cielo. Dichiarando "guerra all’ideologia woke", i Giovani Udc hanno subito sporto denuncia penale nei confronti degli organizzatori per quello che ritengono razzismo al contrario: "L’interruzione del concerto è l’unica cosa razzista veramente accaduta nella Brasserie Lorraine: i membri della band sono stati discriminati perché bianchi", si legge in un comunicato. Anche fuori dall’Udc il giudizio negativo su quella che appare una scelta assurda è stato pressoché unanime, ma è proprio nei discorsi del partito di Christoph Blocher che il tema è stato trattato con la massima intensità (mentre gli svizzeri correvano su Google a vedere cosa fosse questo woke: la ricerca del termine è quadruplicata a ridosso dei fatti, stando a Google Trends).
A poco sono valse le proteste del membro della band Dominik Plumettaz, che al ‘Blick’ ha dichiarato: "I Giovani Udc colgono l’occasione per conquistare elettori; ciò è completamente fuori luogo".
A sentire l’Udc, il fenomeno non si limiterebbe a qualche anfratto della scena alternativa d’ultrasinistra. Secondo il presidente nazionale del partito Marco Chiesa, che ne ha parlato in un discorso del Primo d’agosto, ci si trova ad affrontare una "follia gender-woke", una "intolleranza rossoverde" tale da minacciare le fondamenta della libertà elvetica. Il presidente dei giovani Udc ticinesi Diego Baratti ha aggiunto che "ci troviamo di fronte a una nuova e inedita forma di tirannia e ora dobbiamo combattere un feroce conformismo intollerante, che agisce proprio in nome della tolleranza".
Ma davvero stiamo parlando di fenomeni d’una qualche ampiezza e importanza? Ne parliamo con Sandro Cattacin, professore di Sociologia presso l’Università di Ginevra.
Anche in Svizzera si comincia a parlare di intolleranza ‘woke’. Dobbiamo preoccuparci?
Quello cui stiamo assistendo è l’ennesimo episodio di una strumentalizzazione politica che la destra porta avanti da tempo. Certo, quanto accaduto a Berna è stato un cortocircuito, una stupidata che peraltro non tiene conto della natura della musica, di per sé fatta di contaminazioni globali: basti pensare che la musica popolare svizzera si deve anzitutto all’arrivo degli Jenisch nei Grigioni. E poi l’appropriazione culturale avviene quando si impedisce a qualcun altro di esprimersi – ad esempio, per assurdo, volendo impedire il reggae in Jamaica –, non quando si fa propria un’espressione culturale proveniente da altrove. Cosa che proprio col reggae avviene da decenni: basti pensare ai Pitura Freska che lo declinano in veneziano. Però è sbagliato utilizzare un singolo episodio di questo tipo per demonizzare gli avversari politici e fomentare le divisioni, peraltro utilizzando gli stessi messaggi e le stesse parole che abbiamo sentito in bocca a personaggi come Donald Trump e Vladimir Putin.
Quali sono le radici sociali di questo contrasto?
A partire dagli anni Settanta, anche la società svizzera ha visto affermarsi una cultura dell’individualità. Di conseguenza la diversità, che prima era repressa e andava tenuta nascosta, ha iniziato ad apparire non più come un problema, ma come una risorsa. Da lì arrivano le prime importanti battaglie per i diritti delle donne, dei disabili, degli omosessuali, dei migranti. Successivamente, le rivendicazioni di individui e minoranze sono evolute: non più il semplice "lasciatemi vivere" – con i molti ‘coming out’ di ogni tipo –, ma una richiesta attiva di considerazione e rispetto, nei fatti come nel linguaggio. La trasformazione si è sentita in modo particolare nelle città, che proprio da essa hanno tratto una grande spinta innovativa, non solo sul piano culturale ma anche su quello economico, visto che la valorizzazione della diversità genera anche innovazione.
E dove sta il problema?
Questo cambiamento ha investito il vecchio conservatorismo, facendo anche sentire una parte della popolazione insicura, minacciata nella sua precedente omogeneità, specie fuori dagli ambienti urbani: non è un caso che l’Udc, non trovando ascolto per i suoi messaggi nei centri, punti sulla contrapposizione tra città e campagna. In Svizzera, d’altronde, c’è una particolare polarizzazione tra ambienti estremamente aperti e creativi e altri estremamente conservatori.
Si tratta di paure legittime?
Questa apertura alla diversità – che necessariamente richiede un grande processo di apprendimento – può registrare anche errori, incomprensioni ed eccessi. Si può capire dunque un certo smarrimento, ma viverla come una minaccia è sbagliato: quelli che Alberto Melucci ha definito "altri codici", che conferiscono il diritto di vivere nella differenza e hanno trovato nelle realtà urbane la loro incubazione, non mettono a rischio la libertà e la dignità di nessuno. Anche perché l’alternativa, più che il ritorno allo Stato-nazione bianco e intriso di tradizionalismo, è la degenerazione nell’oppressione: come diceva John Rawls, solo l’autoritarismo ferma il cambiamento sociale.
Un altro ambito nel quale sono state denunciate presunte ingerenze ‘woke’ è quello linguistico: i giovani Udc, ad esempio, hanno invitato a boicottare l’Ubs, rea a loro dire di avere introdotto nei suoi uffici regolamenti linguistici ‘astrusi e dannosi’.
Occorre capire che la lingua esprime anche relazioni di potere. Ben venga dunque che sia a sua volta veicolo di un cambiamento all’insegna del rispetto. D’altronde mi pare che ormai quasi tutti abbiano introiettato almeno un certo grado di trasformazione e sensibilità: quasi nessuno utilizza certi termini offensivi che un tempo erano correnti per riferirsi a donne, disabili, minoranze, così come pochi racconterebbero certe barzellette razziste o antisemite. Anche nel caso della lingua si sta tornando, ormai da lungo tempo, dall’omogeneità alla diversità, che in Europa era andata perdendosi a partire dagli anni Venti del secolo scorso.
Secondo alcuni, però, ‘non si può più dire niente’.
Questa espressione così ricorrente mi fa sorridere, perché mi ricorda mia madre: ogni tanto le scappava una bestemmia e mio padre, che invece non ha mai detto neppure una parolaccia, la guardava sgranando gli occhi. Ecco allora che lei esclamava: "Non si può più dire niente!" Mi piace pensare che come in questo caso, anche in molti altri l’espressione riveli comunque un certo senso di vergogna, una consapevolezza più o meno inconscia del fatto che davvero dire certe cose è scorretto e irrispettoso.
Non c’è però un’intolleranza nel mondo progressista e multiculturale, fomentata in particolare dalle dinamiche tipiche dei social network?
Io trovo che in generale sia aumentata l’insofferenza, che poi trova sfogo in modo anche distruttivo in diverse forme e su diversi canali, inclusi i social network. Ma ancora una volta dobbiamo ricordarci che sono proprio certi discorsi divisivi, come quelli che usano il termine-ombrello ‘woke’ per demonizzare gli altri, che fomentando tale insofferenza incoraggiano involuzioni autoritarie nelle società occidentali.
Esibendo i dreadlock pur essendo bianchi, due membri del gruppo reggae ‘Lauwarm’ sono stati accusati di ‘appropriazione culturale’ da alcuni avventori della Brasserie Lorraine, a Berna. Ma che cos’è davvero l’appropriazione culturale?
Lo spiega bene un recente approfondimento apparso sulla ‘Wochenzeitung’, che racconta come il termine abbia iniziato a circolare col lavoro del pittore e professore di storia dell’arte britannico Kenneth Coutts-Smith, il quale negli anni Settanta descrive la ‘cultural appropriation’ come la tendenza dell’Europa postcoloniale a fagocitare elementi provenienti dai vecchi imperi, nella pretesa di assimilarli dall’alto della sua presunta superiorità. In pratica si tratta di impossessarsi dell’altrui cultura, un po’ come si faceva un tempo con le opere d’arte (si pensi ai fregi del Partenone, trasferiti al British Museum da Lord Elgin all’inizio dell’Ottocento). Una tendenza che oggi viene identificata nell’uso irrispettoso di elementi provenienti da minoranze oppresse, secondo mode e comportamenti dettati da vecchi stereotipi.
L’espressione è poi stata applicata in campo musicale dal critico Greg Tate, che nel suo ‘Everything but the Burden’ (2003) ha descritto come molti musicisti bianchi si siano appropriati di sonorità e canzoni afroamericane, arricchendosi mentre i loro ispiratori e autori rimanevano nella miseria.
La critica all’appropriazione culturale si intreccia spesso a quella del capitalismo, giudicato da alcuni un sistema che mercifica tutto, anche la cultura, strappandola a chi la produce e mettendola nelle mani del migliore offerente.
A livello accademico la critica all’appropriazione culturale ha invece poco o nulla a che vedere con la pretesa di concedere ‘patenti di utilizzo’ d’una determinata cultura solamente a chi vi appartiene per nascita. Eppure è proprio contro questa pretesa che si lancia il presidente Udc Chiesa quando si chiede, nel suo discorso del primo d’agosto: "Solo i neri potranno suonare musica nera e portare pettinature afroamericane? Solo i ‘veri’ Svizzeri potranno cantare lo Jodel?".