Lasciano altri due ministri di peso. A far traboccare la goccia le accuse al premier di aver mentito sulle molestie attribuite all’alleato Pincher
Un governo a pezzi, già di fatto in crisi. Boris Johnson è con un piede nella fossa, forse tutte e due, dopo tre anni al 10 di Downing Street: travolto dagli scandali e abbandonato stasera da due pezzi da 90 del gabinetto Tory (e potenziali aspiranti alla successione) come il cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, titolare della politica economica e numero due de facto della compagine, e come Sajid Javid, ministro della Sanità, ex cancelliere ed ex responsabile dell’Interno.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la vicenda boccaccesca che la settimana scorsa ha investito un alleato chiave del premier, il chiacchieratissimo Chris Pincher, obbligato dalle rivelazioni del Sun a dimettersi dalla carica strategica di deputy chief whip - sorta di custode della disciplina di maggioranza in Parlamento - dopo essersi ubriacato in un gentlemen club di Londra, il Carlton, e aver "palpeggiato" due uomini, incluso un altro deputato.
Uno scandalo gestito ancora una volta male da Number 10, secondo l’onda montante dei detrattori. E su cui BoJo - già inciampato in questi mesi in passi falsi imbarazzanti a ripetizione come quello del cosiddetto Partygate - è stato costretto oggi a un’umiliante marcia indietro rispetto alle dichiarazioni iniziali: ad ammettere cioè di essere stato informato in prima persona almeno su uno dei tanti sospetti precedenti circolati sul suo pretoriano ("Pincher di nome, pincher di natura", secondo la battuta che non ha negato di aver fatto in privato, giocando sul verbo inglese "to pinch’", traducibile come "pizzicare" o "palpare"), quando questi era viceministro degli Esteri fra il 2019 e il 2020; a chiedere di nuovo pubblicamente "scusa"; a giurare che non ci può essere spazio nel governo per alcun "predatore sessuale", gay o etero che sia; a definire "un errore" il mancato siluramento di Chris fin da due anni fa.
Troppo poco e troppo tardi per gli ambiziosi Sunak e Javid - neoconservatori di origini familiari indiane e pachistane rispettivamente - i quali in serata hanno deciso fosse giunto il momento di abbandonare la nave, con due lettere di dimissioni dai toni severissimi verso Johnson.
Sunak ha contestato al primo ministro di essersi ormai reso conto di essere "troppo diverso" da lui: ci sono "standard di comportamento" che vanno rispettati, ha sentenziato, aggiungendo che occorre saper "dire la verità all’opinione pubblica" e che - fra guerra, effetto sanzioni, crisi economica globale e inflazione - il Paese "ha il diritto di aspettarsi una leadership di governo competente e seria" in vista di "sfide immense".
Mentre Javid ha dichiarato di non avere "più fiducia" in Boris Johnson e di "non poter più servire" in una squadra guidata da lui.
Proclami di guerra a chiare lettere dinanzi ai quali Johnson potrebbe provare a resistere ancora per un po’; ma a cui secondo tutti i political editor dei media - dalla BBC in giù - neppure un "surviver" come lui ha alcuna realistica chance di scampare davvero.
Tanto più che la ribellione a questo punto appare destinata a dilagare e a sfociare o nella resa volontaria del premier della Brexit o in un cambiamento di regole interne al partito di maggioranza per riproporre un voto di sfiducia sulla sua leadership senza attendere l’anno di grazia previsto dallo statuto annuale dopo la precedente resa dei conti sfangata per il rotto della cuffia un mese fa; o infine in un benservito del primo ministro firmato a maggioranza dei membri del consiglio di gabinetto, secondo l’opzione intimata in queste ore ai Tories dal leader rivale dell’opposizione laburista, Keir Starmer.
A far crollare disastrosamente la linea difensiva di Downing Street sul caso Pincher è bastata del resto una lettera di lord Simon McDonald, a suo tempo segretario generale del Foreign Office, che si è rivolto alla Commissione sugli standard di condotta ministeriali imputando al governo nero su bianco di "non aver detto la verità". La rivelazione di "una bugia plateale", secondo oppositori interni alla parrocchia Tory come sir Roger Gale, veterano di Westminster, preoccupato per il buon nome del suo partito. Qualcosa anche di peggio per Angela Rayner, combattiva vice leader del Labour di Starmer, pronta a rinfacciare a Johnson di aver "gettato la reputazione del Paese e del suo ufficio nel fango".
"Non è affatto vero - ha commentato da parte sua Owen Jones, notista radicale e anti-retorico del progressista Guardian - che Boris Johnson sia l’unico primo ministro aduso a mentire (nella storia del Regno Unito). Il problema è che lui lo fa su cose facili da esporre come bugie evidenti e incontrovertibili, bugie che in sostanza ci aspetteremmo da un bambino piccolo". Non dal leader di una nazione in tempi burrascosi.