A trent’anni dalla morte di Falcone restano l’orgoglio e le ferite di chi ha lottato per la verità
Esattamente trent’anni fa, a Capaci, la mafia faceva saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. A sventrare l’autostrada A29 nei pressi di Palermo fu il pulsante premuto da Giovanni Brusca, detto ‘u verru’ (il porco) e ‘scannacristiani’, scarcerato l’anno scorso dopo 25 anni di reclusione.
Dietro a lui e ai suoi complici c’era la longa manus di Totò Riina, boss di Corleone, morto nel 2017 a 87 anni nel carcere di Parma. Ma la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio – che il 19 luglio dello stesso anno avrebbe causato la morte del giudice Paolo Borsellino e di cinque agenti – continuano a sollevare dubbi e interrogativi. Una cosa è certa: il dolore dei testimoni e dei sopravvissuti resta vivo, e con esso la forza della loro testimonianza. Abbiamo incontrato a Palermo Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica ed esperto di Cosa Nostra, e Giovanni Paparcuri, agente sopravvissuto all’attentato contro un altro magistrato, Rocco Chinnici, nel 1983, per capire meglio una storia che parte da molto lontano.
Giovani Falcone era nato il 19 maggio 1938 (M. Rossi)
Da oggi, 23 maggio 2022, inizierà a Palermo una gara di discorsi e omaggi a due uomini, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gara che si svolgerà in un contesto delicato, visto che il 12 giugno si terranno le elezioni comunali e la campagna elettorale è segnata dal ritorno di due personaggi di cui molti avrebbero fatto a meno: Marcello Dell’Utri, "l’impresentabile", ex braccio destro di Berlusconi, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, e Salvatore Cuffaro, condannato pure lui a 7 anni per favoreggiamento a Cosa Nostra. Tutti e due appoggiano la candidatura a sindaco di Roberto Lagalla, esponente del centrodestra. Un’altra aspra polemica è sorta nei giorni scorsi dopo le dichiarazioni di un consigliere comunale di Capaci, peraltro ex carabiniere, secondo il quale "a Capaci la mafia non esiste", essendo quello un "paese perbene".
Sicuramente non esisteva neppure in quel 23 maggio 1992, alle 16 e 58, quando Giovanni Brusca fece esplodere una carica di cinque quintali di tritolo.
Un’altra immagine dell’attentato (Keystone)
Salvo Palazzolo appartiene a una generazione di giornalisti cresciuta con le stragi, e ha deciso di restare a Palermo per continuare a raccontare, sondare, comprendere. Di recente ha pubblicato un libro su due grandi ‘dimenticati’ della storia letteratura sulla mafia: i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere Brancaccio a Palermo. Ma soprattutto "boss di tutte le stragi, in quanto Giuseppe ha reso possibile l’attentato di Capaci, azionato il telecomando per uccidere Borsellino, e poi il suo gruppo ha realizzato tutte le stragi del 1993".
Non senza ironia, Palazzolo racconta di aver iniziato a fare il giornalista nel peggior modo possibile, senza capire cosa gli stesse succedendo attorno. Nel 1992 aveva 22 anni e studiava giurisprudenza, ma collaborava anche con una piccola emittente tv, Tele Scirocco.
Il 19 luglio si recò in via D’Amelio: «Sono rimasto per 2 ore in quell’inferno, ma sono tornato in redazione con il taccuino bianco. Perché ero preso da questa scena di guerra che non sapevo come raccontare. Era quella la mia sensazione. Il vuoto. Le pagine bianche. E in quella confusione anche i cronisti più anziani non si resero conto di quanto stava accadendo. Invece qualcuno entrò, andò verso la macchina di Borsellino, prese la borsa e rubò l’agenda. Mi sarà passata lì davanti, questa persona».
L’agenda rossa di Borsellino è solo una delle numerose tessere mancanti nel mosaico criminale di Cosa Nostra. Bisogna capire, scrivere, trovare risposte, d’accordo, ma da dove cominciamo? «Io facevo un gioco un po’ strano, scrivevo le domande senza risposte su dei fogliettini e li mettevo in una scatola che alla fine era piena, e andava svuotata. Allora li ho messi tutti in fila e mi sono accorto che c’era un filo conduttore tra tutti gli omicidi di Palermo. Dopo l’azione dei killer di Riina, subito entravano in azione altre persone sulla scena del crimine, nelle abitazioni, negli uffici. E rubavano le ultime parole di quei morti. Come se non bastasse ucciderli, ma bisognasse cancellare le loro parole».
Una manifestazione contro le mafie (Keystone)
Oggi sappiamo – ma è davvero così evidente? – che i fatti di trent’anni fa restano d’attualità. «Un pentito ha dichiarato che nel 1992 Riina disse a Giuseppe Graviano e a Matteo Messina Denaro: ‘Falcone ha fatto la superprocura, io faccio la superCosa’. Ora Denaro è scomparso, è latitante dal giugno del 1993, ed è irreperibile. Graviano invece è in carcere, ma manda messaggi. Dice di avere investito soldi a Milano, dice di essersi messo in contatto proprio con Berlusconi, accusa Falcone di avere depistato il maxiprocesso. Ma io credo che la verità nelle parole di Graviano, che non è un pentito e dunque parla da mafioso, sia nelle cose che non dice».
Ed eccoci qui, con un Graviano che da una parte fa sempre riferimento ad altre persone, a qualche tramite – probabilmente i suoi veri complici –, e dall’altra un Messina Denaro che non si trova: «E perché? Perché Graviano manda messaggi dal carcere? Chi vuole ricattare? Io credo che il silenzio di Denaro e le menzogne di Graviano siano la stessa cosa».
Non si può raccontare Palermo, città bellissima e paradossale, senza quelle parole rubate alle vittime di mafia. Ecco perché da anni la battaglia di Palazzolo è quella di chiedere che vengano aperti in Italia tutti gli archivi di Stato. "Tutti".
Così titolarono i quotidiani il giorno dopo l’attentato al giudice Rocco Chinnici, ucciso a Palermo il 29 luglio 1983 insieme a due agenti della scorta, i carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e al portiere del suo palazzo, Stefano Li Sacchi. Quella mattina, verso le 7 e 50, era esplosa una Fiat 126 imbottita di tritolo. Giovanni Paparcuri aveva 27 anni e faceva l’autista giudiziario. È l’unico sopravvissuto. Sopravvissuto grazie ai pochi secondi in cui si era allontanato dall’autobomba: su richiesta di uno dei colleghi, stava posizionando il walkie-talkie nell’auto blindata. D’accordo, ma dopo? Dopo sono arrivati la convalescenza di un anno, lo scontro con la gerarchia che voleva congedarlo, ma anche il senso di colpa del sopravvissuto, la vergogna. Oltre ad attacchi e minacce. Lui però non si è arreso – la forza è un tratto palese del suo carattere – ed è tornato a lavorare al fianco di Falcone e Borsellino nel "bunkerino", stanze blindate in un’area un po’ remota del labirintico tribunale di Palermo.
Giovanni Paparcuri (Keystone)
Nel 2016, per volontà dell’Associazione nazionale magistrati italiana, il bunkerino è diventato il ‘Museo Falcone-Borsellino’. Ed è proprio qui che ritroviamo Paparcuri, che ha contribuito a ricostituire l’ambiente di queste stanze com’erano allora, e vi accoglie i visitatori. Per prima cosa chiede a ciascuno di presentarsi e di spiegare il motivo della visita: non tollera il "turismo antimafia" sui luoghi di morte, specie in questo momento, così come non tollera che i magistrati massacrati vengano chiamati "eroi": «L’eroismo è un alibi per non fare ciò che hanno fatto loro, per non prendersi le proprie responsabilità», ci dice.
Intanto siamo qui, in quello che era l’ufficio di Borsellino. Carte sparse, ritagli di giornali, computer Olivetti di altri tempi, floppy disk, foto e un pacchetto delle sue famose Dunhill sulla scrivania. Poi l’ufficio di Falcone, con gli stessi oggetti, burocratici e non. Un foglio inserito nella macchina da scrivere: un mandato di cattura firmato dal "pool antimafia", i giudici Antonino Caponnetto, Falcone, Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lelio.
Sulla scrivania, il verbale dell’interrogatorio di Tommaso Buscetta. Nel corridoio, una foto in bianco e nero ritrae i due giudici e racconta tutta la loro solitudine.
Paparcuri racconta il quotidiano di questi uomini, e insiste: "uomini", non solo magistrati. Racconta delle minacce, dell’amicizia profonda, del dolore di Borsellino dopo la morte di Falcone. Sono parole amare, sincere, schiette, lucide. Anche quando ricorda le prese in giro dello Stato italiano nei confronti dei due: «Gli avevano dato un cosiddetto kit di sicurezza, ossia un impermeabile con un gancio da attaccare al giubbotto antiproiettile, e questa borsa (una borsa portadocumenti, ndr). Sentite com’è pesante? È pesante perché dentro c’è una placca di legno. Questa gli doveva fungere da scudo».
Stiamo scherzando? Magari. Ma lo Stato italiano non scherza, quando si tratta della sicurezza dei magistrati minacciati. Ricordiamo il carro armato che nel 2013 volle mettere a disposizione del pubblico ministero Nino di Matteo, minacciato da Riina. Torniamo al "non-eroismo": «Loro non si vedevano come eroi, hanno fatto il loro lavoro, il loro dovere».
È lui, Paparcuri, a parlarci della sua gratitudine nei confronti di Borsellino, che lo ha fatto rinascere. A dirci che è «impossibile sconfiggere la mafia finché ci saranno collusioni a livello istituzionale». Il suo è un impegno molteplice e quotidiano, volontario, per il quale non chiede né prende niente.
Più tardi, seduti al tavolino della caffetteria di fronte al tribunale, ci dice indicando la testa: «Tocca qui». Un po’ sopra all’orecchio, la forma di una scheggia. Prende la mia mano e la appoggia sulla spalla, sul gomito, sul polso destro. Schegge, ancora schegge. E una placca di metallo al posto del metacarpo. «Nessuno può capire ciò che provano i sopravvissuti». O forse sì, caro Giovanni, almeno un po’.
Il ‘Bunkerino’ dei magistrati è diventato un museo (M. Rossi)