Le storie di professionisti rientrati o arrivati in Ticino. Biomedicina, oncologia e facoltà di medicina stanno calamitando nuovi talenti
Vi raccontiamo un Ticino in fermento che sa attrarre talenti. Continuiamo il nostro viaggio con le storie di tre brillanti ricercatori (Greta, Pietro e Marco) rientrati o venuti in Ticino, perché lo ritengono competitivo nei loro ambiti. Hanno lasciato Losanna, Los Angeles e Berna, dove avevano carriere di successo. In Ticino portano competenze, successi accademici, energia creativa per costruire una sanità di punta. Un vantaggio per tutti. Infatti, un franco investito nella ricerca ne genera tre in termini di nuovi posti di lavoro, brevetti, scoperte. Quello che si costruisce oggi avrà un impatto sul Ticino di domani. Un buon rimedio all’emorragia di cervelli (se ne vanno in 300 l’anno). Gli antidoti si chiamano biomedicina, oncologia, facoltà di medicina... la nuova culla bellinzonese della ricerca, dove convivono Irb, Ior e i laboratori dell’Eoc, sta dando i suoi frutti.
«Nei tempi di crisi, la ricerca in biomedicina è qualcosa su cui puntare, quasi un valore rifugio, anche più delle banche. La realtà accademica plasma il tessuto locale, imprime dinamismo e favorisce, nel lungo termine, ricadute sulla qualità di vita», dice la biologa Greta Guarda, direttrice di laboratorio all’Irb, professoressa all’Usi, dove è anche vicedecana alla ricerca. Dopo una lunga esperienza accademica tra Zurigo e Losanna, dove gestiva il suo team, qualche anno fa è rientrata in Ticino. La incontriamo nella nuova culla bellinzonese della ricerca, dove lavorano 250 professionisti. «In ambito accademico vieni scelto perché il tuo settore di competenza interessa l’istituto. I posti disponibili non sono molti in Svizzera. Sono tornata in Ticino perché l’Irb è un eccellente istituto».
Un ruolo importante l’ha giocato l’Università, amalgamando realtà un tempo disperse ha creato una certa massa critica secondo il motto: l’unione fa la forza. «Istituti (Irb e Ior) e laboratori di ricerca traslazionale (Eoc) cresciuti sulla spinta di iniziative individuali ora sono una realtà integrata. Lavoriamo tutti sotto lo stesso tetto. C’è dinamismo e una grande spinta progettuale». Quello che prima era frantumato oggi è riunito sotto il cappello della facoltà di biomedicina. «L’obiettivo è avere un punto di riferimento per tutta la ricerca», risponde la vicedecana.
Il suo ufficio è sobrio, sembra un acquario, tutto vetrate. Due piante danno un tocco di colore. «Adoro le piante, sono uno dei miei piaceri degli ultimi anni», ci confida. Sulla libreria c’è una strana foto, ritrae due piedi. Il ricordo, ci racconta, di un vecchio collega di laboratorio. Un tempo ci trascorreva molte ore, ora ci sta poco. Il suo ruolo è diverso. Ne dirige uno con 8 giovani ricercatori. Tra camici e provette, troviamo un ambiente allegro, giovane e vivace, si parla inglese, c’è anche chi viene da lontano (Iran e India). «Ci si diverte a far ricerca. E si intrecciano rapporti umani arricchenti, il laboratorio diventa quasi una seconda casa». Un’attività comunque coi suoi alti e bassi: «Sei sempre stimolato ad andare oltre, a pensare in modo creativo. È quasi sopravvivenza: se non trovi qualcosa di nuovo, non pubblichi e non ricevi finanziamenti». Ai suoi ‘ragazzi’ lo dice spesso: «Ci vuole pazienza, perseveranza e positività». Da giovane aveva un sogno e l’ha inseguito. «Volevo diventare come Konrad Lorenz (il padre dell’etologia moderna, ndr), ma poi mi sono innamorata della biologia molecolare».
All’Università di Losanna, da Post-doc ha studiato il sofisticato meccanismo infiammatorio denominato ‘inflammasome’, responsabile dell’attivazione delle risposte infiammatorie. Quando c’è un potenziale invasore (ad esempio un batterio) si attiva nel corpo un meccanismo per attirare l’attenzione: si crea una sorta di ‘piattaforma’, formata da proteine della famiglia ‘Nlr’. Non tutte le proteine di questa famiglia fanno la stessa cosa. Una di queste regola un’altra proteina, che possiamo definire come la carta di identità delle cellule: distingue agli occhi del sistema immunitario una cellula sana da una malata. Detto in parole semplici, il team della dottoressa Guarda analizza proprio queste proteine. «Se dovessimo riuscire a manipolare questo sistema potremmo potenzialmente sviluppare nuove cure contro tumori, infiammazioni, autoimmunità. Utilizziamo approcci genetici, biochimici, molecolari e modelli traslazionali».
Un tipo di ricerca particolare che la prof. Guarda può continuare all’Irb (dove da studente aveva fatto uno stage). «Forse mi ripeto, ma è un eccellente istituto, la sua produttività è ottima, in termini di risultati (paper pubblicati). Un lavoro portato avanti con sussidi tutto sommato contenuti se, facendo le dovute proporzioni, ci rapportiamo ad altre realtà accademiche elvetiche. Gli investimenti pubblici sono importanti perché danno solidità, attrattività, permettono di essere lungimiranti», conclude.
Trapianto e dialisi sono le due principali opzioni per chi soffre di grave insufficienza renale, la scienza, però, negli ultimi anni ha fatto passi da gigante nel campo della medicina rigenerativa. L’obiettivo: riparare gli organi malati a partire dalle cellule dello stesso paziente. Sembra fantascienza invece è la quotidianità per chi è impegnato nella complessa ricerca come il dottor Pietro Cippà, cresciuto a Bellinzona, che da Los Angeles ha deciso di rientrare nel Cantone.
Già capoclinica di nefrologia all’Ospedale Universitario di Zurigo, dove si è formato e ha fatto ricerca, ha proseguito la sua esperienza alla University of Southern California a Los Angeles, una delle università più prestigiose d’America in questo ambito di ricerca. «È stata una bellissima esperienza che apre gli orizzonti. Si impara molto lavorando in team dove l’obiettivo è raggiungere i massimi livelli mondiali. Facevo ricerca sull’immunologia dei trapianti renali, sulla rigenerazione del tessuto renale, sui metodi per prevenire l’invecchiamento del tessuto renale che può portare all’insufficienza renale».
Da qualche anno è il nuovo primario di nefrologia all’ospedale regionale di Lugano e dirige anche il Dipartimento di medicina all’Eoc. Abituato a fare ricerca ad alti livelli, ci spiega perché è rientrato in Ticino: «Non solo per i nonni», scherza. Oltre all’attività clinica in nefrologia, voleva continuare la ricerca clinica e traslazionale in un ambiente stimolante e dinamico: «L’ho trovato nei nuovi laboratori a Bellinzona. Lavorando sotto lo stesso tetto si aprono possibilità di collaborazione, si condividono idee, tecnologie e nascono progetti interessanti».
L’alternativa poteva essere rimanere negli Stati Uniti o tornare a Zurigo. «In Ticino la dimensione è più piccola, ma molto stimolante. In alcuni ambiti sanitari all’Eoc abbiamo raggiunto un ottimo livello. Il sistema è ancora fragile, anche se ha un enorme potenziale di crescita. Se si vogliono avere prospettive e una stabilità a lungo termine servono investimenti e aggiornamenti della struttura organizzativa».
La ricerca di un certo livello porta ricercatori, dinamismo e un indotto per tutto il territorio. «Il prossimo passo è dare una struttura più solida e ancorata in una realtà universitaria più stabile». E un ulteriore successivo passo, non lo nasconde, dovrebbe essere il concetto dell’ospedale universitario: «Sarebbe il salto di qualità importante per tutto il Cantone. Far crescere l’Eoc verso una medicina accademica, non significa servire peggio le realtà periferiche, ma portare qualità in tutto il Cantone. È necessaria una spinta verso un miglior coordinamento dell’offerta sanitaria e verso cure di qualità per tutta la regione. L’ospedale universitario potrebbe fungere da locomotiva in questo percorso», precisa.
Altro obiettivo: sviluppare nuovi modi di fare medicina. «Mettendo in rete gli specialisti di varie discipline, attivando dinamiche di specializzazione su specifiche patologie, ripensando al ruolo delle varie figure professionali nel sistema sanitario e promuovendo l’uso di nuove tecnologie, si aprono nuove opportunità sia in ambito clinico che di ricerca».
Padre di 4 figli, ha sempre apprezzato le materie scientifiche ma voleva anche la componente più umana nella sua professione. «Clinica e ricerca mi permettono di unire questi due ambiti. Al letto del paziente siamo confrontati con problemi che poi analizziamo in laboratorio per capire i meccanismi biologici. In una dimensione piccola come il Ticino lo scambio tra questi due mondi è forse più diretto e dinamico».
Da giovane voleva fare il giornalista, scriveva di sport e cultura per il Messaggero di Forlì, una testata della sua Emilia Romagna, poi la vita l’ha portato all’estero, tra Olanda e Svizzera: nel suo campo è considerato un luminare. In piena pandemia, il professor Marco Valgimigli è arrivato al Cardiocentro di Lugano, dove è viceprimario. «Ho deciso tanti anni fa di lasciare l’Italia e di fare un percorso internazionale di cui vado fiero – ci racconta il cardiologo – dopo 5 anni all’Inselspital di Berna e la docenza all’Università della capitale ho colto l’opportunità di spostarmi al Cardiocentro a Lugano, un istituto molto reputato anche in Italia. È un ottimo compromesso tra qualità di vita, lingua e prospettive professionali».
Il prof. Valgimigli, già presidente di più linee guida della Società Europea di Cardiologia, è un ricercatore infaticabile, anzi da primato. Quasi 700 pubblicazioni su riviste peer-reviewed. I nomi sono quelli più noti anche ai profani: European Heart Journal, Circulation, The Lancet, il Journal of the American Medical Association, e il New England Journal of Medicine. Il suo ambito di ricerca spazia dagli interventi coronarici e strutturali agli antitrombotici. Con più di 5mila citazioni è stato insignito, per il quinto anno consecutivo, del titolo ‘Highly Cited Author’, nel campo della medicina. Ci spiega: «Per chi fa ricerca, l’importante è quante volte il tuo articolo viene citato, perché chi fa buona ricerca influenza altri colleghi nel mondo».
L’opportunità di essere professore titolare alla facoltà di medicina e continuare a far ricerca sono tra gli elementi che l’hanno calamitato in Ticino. «Qui si respira l’entusiasmo e il fermento di una piccola università che ha bisogno di talenti per crescere. È un’opportunità unica per creare un nuovo tipo di ricerca, per insegnare a giovani studenti. È bello esserci e partecipare». Ma c’è di più: «Vengo da istituti prestigiosi, dove però spesso cardiologo e cardiochirurgo faticano a parlarsi, al Cardiocentro di Lugano si lavora assieme per offrire il meglio al paziente. Meno competizione e più collaborazione. Penso sia la via giusta». Ci confida che è venuto per restare. «Vivo a Ruvigliana e ho appena acquistato casa». Del Ticino ha qualche ricordo d’infanzia, quando i suoi genitori lo portavano in gita a Lugano. «Lo sto riscoprendo nel tempo libero: è un luogo meraviglioso».
Ha studiato medicina (prima da internista, poi da epatologo) a Bologna, poi inseguendo la sua passione per la medicina d’urgenza, si è spostato a Ferrara per studiare una nuova disciplina: la cardiologia. Dopo la specializzazione ha ottenuto il dottorato in cardiologia interventistica all’Erasmus Medical Center di Rotterdam. «È un centro molto competitivo dove ciascuno approfondisce una nicchia. Ho fatto per anni il micro-ricercatore ai massimi livelli mondiali. Ora mi sono rimesso in discussione accettando una nuova sfida. Nei grandi centri di ricerca, devi investire il 70% delle energie nella competizione e il 30% nel produrre. A Lugano c’è terreno fertile per continuare a crescere, mettendo il 90% dell’energia nel fare e solo il 10% nella concorrenza. Si è più produttivi». Ma la concorrenza può essere anche stimolante… «Non sono a Lugano per arenarmi», precisa.
Il Ticino è un buon compromesso, ma in fondo la sua ricerca clinica potrebbe farla ovunque. «La mia specialità sono gli studi multicentrici clinici che coinvolgono anche cento Paesi».
‘Convince’ è il nome dello studio in corso sul Covid, che ha iniziato nella fase di transizione dall’Inselspital di Berna al Cardiocentro di Lugano. «Si focalizza su pazienti positivi curati con medicamenti antinfiammatori e antidolorifici, ma non così gravi da dover essere ricoverati. Abbiamo coinvolto 30 pazienti in Ticino. Non per forza cardiopatici, ma persone ad alto rischio di complicanze legate al Covid (come età avanzata e comorbilità) che potrebbero portare a un decorso grave della malattia. In parole semplici, l’obiettivo è quello di testare due molecole utilizzate in cardiologia e capire se riescono a spegnere la risposta infiammatoria scatenata dal Covid nelle prime fasi della malattia. Lo studio, condotto in parallelo in centri di competenza di varie nazioni, prevede di andare al domicilio dei pazienti e questo rende tutto assai laborioso». Per ottenere risultati attendibili serve una massa critica di pazienti che garantisca un sufficiente numero di osservazioni. Lo studio è ancora in corso.
Prima di lasciarci, ci racconta della sua prima busta paga, c’erano 200 euro. Non faceva il medico. Aveva un’altra passione. «Durante gli studi scrivevo di calcio e cultura per il Messaggero di Forlì e la Gazzetta di Rimini. Quando ho iniziato l’università non era più compatibile e questa gradevole avventura è terminata».